Si dice che ogni guerra è come un viaggio all’Inferno e che l’Africa è una scorciatoia per raggiungerlo. Le cronache, infatti, abbondano di tragedie che vedono nelle desolate e insidiose lande africane il proprio teatro privilegiato. Specialmente quando le vittime sono occidentali, che si trovano ad essere testimoni diretti del silente dramma patito dal Continente Nero. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, rimasto vittima, insieme al suo agente di scorta, il carabiniere Vittorio Iacovacci, di un crudele attentato in Congo, nella regione del Nord Kivu. Si ritiene che, come già accaduto in precedenza, l’agguato sia opera dei ribelli che operano nella regione e che rendono essa una delle zone più pericolose del pianeta. Una storia questa, che a distanza di due anni, non ha ancora conosciuto giustizia e che ha riacceso il dibattito sulla cosiddetta “Questione africana”. Si, perché il Congo non è l’unico Stato africano ad avere le strade lordate di sangue innocente. Ciò che è avvenuto a febbraio 2021 è la storia di tutti i giorni in Congo e in altre nazioni dell’Africa profonda. Una storia che dalla fine del colonialismo ha visto proliferare dittatori sanguinari, signori della guerra, terroristi e mercenari di ogni tipo. Criminali che vedono nella guerra un’indebita fonte di arricchimento, idonea ad affermare il proprio potere su popolazioni stremate da guerre, malattie e carestie. Piaghe purulente che affliggono l’Africa da decenni e di fronte alle quali l’Occidente ostenta una sostanziale indifferenza. Eppure esso, nonostante il colonialismo sia finito da un bel pezzo, è ancora lì, a gestire le sorti del continente per mezzo delle sue aziende e delle sue multinazionali. Aziende che negli ultimi cinquant’anni hanno fatto lauti guadagni, sfruttando a proprio vantaggio il dolore africano e finanziando chi questo scempio glielo ha inopinatamente permesso. È accaduto in Ruanda, dove è stato dimostrato che l’eccidio dei Tutsi da parte degli Hutu è avvenuto grazie ad armi fornite dal Belgio e da altre nazioni europee. Un genocidio che, peraltro, ha avuto notevoli ripercussioni sulla stabilità della regione e delle nazioni vicine ( fra cui proprio il Congo). Idem è accaduto in Sierra Leone, dove la decennale guerra civile è stata finanziata dal traffico sia delle armi sia dei diamanti con i paesi occidentali. Risorsa quest’ultima di cui il paese è straordinariamente ricco e che è stata al centro del dibattito internazionale riguardo alla necessità di bloccarne il contrabbando ( risoluzione 1306/2000 dell’ONU). Stesso scenario si è, ancora, ripetuto nel 1992, in Somalia, quando in seguito alla cacciata di Siad Barre il paese è sprofondato nella guerra civile ed è stato necessario l’intervento delle Nazioni Unite per riportare la normalità ( operazione “Restore Hope”). Somalia che, anche dopo la fine del colonialismo italiano e l’instaurazione del regime di Barre, ha mantenuto comunque saldi rapporti economici e commerciali con l’Italia. Interessi che hanno continuato a persistere con la fine della dittatura e che hanno favorito il contrabbando delle armi e dei rifiuti tossici nel Paese. Un caso questo che è stato al centro di inchieste prima giornalistiche e poi giudiziarie. Emblematica, in tal senso, è stata la vicenda dell’uccisione di Ilaria Alpi, giornalista del Tg3, e del suo cameraman, Miran Hrovatin. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, Ilaria Alpi, che era giunta in Somalia per documentare lo svolgimento della missione di pace, si era imbattuta nei traffici illeciti con l’Italia. Una circostanza questa, lo si scoprirà solo in seguito, appresa dalla giornalista per mezzo di un funzionario del Sismi, Vincenzo Li Causi, in missione in Somalia per conto della Nato. La notizia, invero, era già nota alla Cia e al Pentagono. Non a caso, infatti, gli Stati Uniti si opposero fermamente alla partecipazione dell’Italia alla missione, in virtù dei rapporti opachi intrattenuti fin dalla fine degli anni “80” fra il governo italiano e quello Somalo. Sfortunatamente Alpi e Hrovatin non faranno in tempo a comunicare quanto da loro appreso, perché verranno assasinati in prossimità dell’ambasciata italiana a Mogadiscio, il pomeriggio del 20 Marzo 1994. Da quel giorno numerosissimi sono stati i depistaggi e i tentativi di impedire l’emergere della verità. Una verità scomoda che, leggendo le carte processuali, avrebbe quasi sicuramente scoperchiato il “vaso di Pandora” dell’affare Somalia, provocando un autentico terremoto. Terremoto evitato dalla morte dell’ inviata del Tg3, ma che ha posto comunque in rilevo interessanti connessioni. Come quella relativa al coinvolgimento nell’omicidio dei nostri servizi segreti. A tal proposito, a venire in rilievo è la figura del maresciallo Vincenzo Li Causi, informatore di Ilaria Alpi e figura chiave dell’inchiesta. Costui, morto nel Novembre 1993 in seguito dell’operazione Ibis II, era un agente segreto del Sismi ed esponente di spicco dell’organizzazione Gladio. Gladio, che come tanti altri misteri italiani del secondo dopoguerra, ha avuto un ruolo non trascurabile anche in questa vicenda. Con molte probabilità, infatti, Gladio ebbe parte attiva nel coprire le attività italiane nell’ex colonia africana. Compito che l’organizzazione ha svolto fino al 1991 e che collega l’omicidio di ilaria Alpi a un altro omicidio ad esso di poco antecedente: quello di via Poma. A tal riguardo, un’ipotesi non proprio peregrina sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, adombra significativi dubbi sulla società per cui la ragazza lavorava come segretaria. Secondo tale teoria, l’A.I.A.G. altro non era che una fittizia agenzia turistica che copriva l’attività dei servizi all’estero( fra cui le attività in Somalia di Gladio). Una circostanza questa che non è mai stata approfondita e che, a distanza di trent’anni, non ha visto nessuna condanna per il delitto in questione, ma solo altri depistaggi. Depistaggi che, a giusto titolo, hanno meritato all’Italia il titolo di terra dei segreti e delle cospirazioni.
Un gran bel articolo assai esaustivo nella descrizione dei fatti .
Grazie mille