Con lo scoppio della guerra in Ucraina il mondo è tornato a fare i conti con i fantasmi del suo passato nucleare. Un incubo che credevamo aver sepolto con la Guerra Fredda, ma che è tornato ad aleggiare sull’Europa in tutto il suo sinistro splendore. Vladimir Putin ha infatti minacciato solo pochi giorni fa di essere pronto a tutto pur di tutelare gli interessi del suo paese da interferenze straniere. Anche a ricorrere alla soluzione finale, ovvero attivare le testate missilistiche nucleari. Missili che, come ha recentemente dimostrato l’Università di Princeton, se raggiungessero l’Europa provocherebbero la morte di almeno 80 milioni di persone in meno di un’ora. La minaccia al momento è rimasta lettera morta, ma è bastata per rianimare le nostre più recondite paure. La storia, infatti, come diceva Tucidide, tende a ripetersi, non conoscendo la follia umana confini. Un timore che fu condiviso anche da Einstein, il quale in una lettera indirizzata al Presidente americano Franklin D. Roosevelt denunciava il tentativo dei nazisti di produrre la prima bomba atomica. Nella sua lettera, il padre della relatività si diceva preoccupato del cattivo uso che poteva essere fatto di queste armi di nuova generazione. Armi che sfruttando l’effetto esplosivo della fissione nucleare erano in grado di annientare la vita nel raggio di molti Km dal punto d’impatto. Einstein concluse la sua missiva convinto che il mondo non avrebbe mai sperimentato a sue spese gli effetti di una deflagrazione nucleare. Tuttavia, solo pochi anni dopo( la lettera risale al 1939) la storia lo smentì clamorosamente. A Hiroshima, in Giappone, la prima bomba della storia venne sganciata la mattina del 6 Agosto 1945. I testimoni raccontarono di aver udito un boato assordante, seguito da un grande bagliore. La bomba esplose a 580 metri da terra, polverizzando il centro della città e provocando da subito centinaia di migliaia di vittime. Per effetto dell’onda d’urto, in una manciata di minuti, circa il 90% degli edifici crollò su se stesso e le fiamme divamparono attorno al luogo dell’esplosione. I giapponesi non fecero in tempo a gridare all’ira di Dio che lo stesso scenario si ripeterà solo tre giorni dopo a Nagasaki. Qui gli effetti del “fungo atomico” furono così devastanti da indurre il governo giapponese a firmare la resa con gli Usa. La fine delle ostilità non cancellerà, però, il ricordo dei tragici fatti di quei giorni. Da allora, infatti, tutti i governi mondiali si sono impegnati a garantire un mondo più sicuro e senza armi nucleari. Una promessa che è stata largamente disattesa dalle principali superpotenze e che ha favorito l’instaurarsi di un equilibrio della paura. Tale deterrente ha funzionato per decenni ed è sopravvissuto anche alla fine dell’Urss. Eppure, malgrado i trattati, gli arsenali nucleari non hanno fatto altro che crescere negli ultimi settant’anni. Ciò in vista di un possibile conflitto, biasimato da tutti, ma che tiene tutti allerta. Ora, con la crisi in Ucraina, sembra che qualcosa si sia inceppato. In tal senso, le immagini dei bombardamenti sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia da parte dell’esercito russo non lasciano spazio ad alcun dubbio. Mai come in questo momento il mondo rischia di precipitare verso un conflitto nucleare dagli esiti tanto imprevedibili quanto devastanti. Tuttavia, nelle ultime ore qualcosa su questo fronte è cambiato. Il forte impegno della comunità internazionale per trovare una soluzione alla crisi ucraina, ha infatti indotto i russi a tornare sulla strada del dialogo. Un dialogo ancora stentato fra le parti in conflitto, ma che allontana lo spettro di una guerra nucleare ai confini dell’Europa. Non è molto, ma è sufficiente per continuare a sperare nella pace. articolo di Gianmarco Pucci
Morire per Kiev
Ieri mattina all’alba è ufficialmente iniziata l’invasione russa dell’Ucraina. L’assalto è stato preceduto, come da copione, da un discorso di Putin alla nazione, attraverso cui il leader russo ha annunciato l’intervento militare “speciale” nel Donbass. Al pari del comunicato dello scorso 21 Febbraio, Vladimir Putin ha legittimato tale atto di forza ribadendo la necessità di ripristinare l’ordine in quella che lui considera nient’altro che una provincia di Mosca. Una provincia ribelle che con le proprie pretese filoatlantiche, avallate dalla Nato e dall’Occidente, ha messo a repentaglio la sicurezza della Russia e dei suoi alleati. Almeno questo è quello che sostiene lui. Il capo del Cremlino ha, infine, ammonito l’Occidente dall’ interferire nella crisi in atto, pena sanzioni mai viste prime. Avvertimento che non ha lasciato indifferenti le cancellerie occidentali, sempre più preoccupate da questa drammatica escalation militare. Per il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, Putin ha condotto l’Europa sull’orlo del baratro e ne pagherà le conseguenze con durissime sanzioni economiche. Dello stesso tenore le reazioni degli altri leader europei. A partire da Boris Johnson, che nel suo ultimo intervento alla Camera dei Comuni ha definito Putin dittatore e ha annunciato misure draconiane in grado di distruggere l’economia russa. Misure che sono al vaglio anche della Commissione Europea e che, come ventilato durante il vertice speciale del G7 di ieri pomeriggio, si preannunciano severissime. Tali sanzioni colpiranno tanto persone fisiche quanto persone giuridiche( aziende e asset strategici). A venire danneggiate saranno soprattutto le fabbriche operanti nel settore della difesa e delle nuove tecnologie. Settori strategici dell’industria russa e che, unitamente al blocco dei pagamenti col sistema Swift, impediranno alla Russia di accedere al credito e ai mercati occidentali. Ingenti danni si prevedono anche per il settore turistico, che a causa dello scontro in atto vedrà un restringimento dei visti per i paesi europei di oltre il 70%. Tuttavia, da questo primo pacchetto di misure è stata esclusa l’energia. Metà dell’Europa, infatti, dipende per circa il 50% del proprio fabbisogno energetico proprio da Mosca. Un problema che riguarda da vicino anche il nostro paese e che rischia di ripercuotersi nel lungo periodo sull’economia italiana. Per questo motivo nel Consiglio di ieri sera è stato deciso, dopo il blocco del gasdotto Nord Stream 2 da parte della Germania, di rinviare le sanzioni energetiche a un momento successivo, nella speranza che Putin retroceda dai suoi propositi guerrafondai. Una speranza che, però, diventa sempre più flebile con il passare delle ore. La morsa militare che cinge attualmente l’Ucraina infatti sembra andare nella direzione contraria a ogni soluzione diplomatica. Eppure, nonostante la strada sia molto stretta, la Russia non ha finora mai escluso di poter tornare a sedersi al tavolo dei negoziati. A condizione, però, che Kiev rinunci alla sua pretesa di entrare a far parte della Nato. In tal senso, l’invito rivolto ieri pomeriggio a Zelensky è suonato come un sinistro ultimatum rivolto dalla Russia all’Ucraina in vista della possibile capitolazione del paese. Debacle che sembra ormai essere nell’aria e che pone una domanda fondamentale: l’Occidente è davvero disposto a morire per Kiev? A giudicare dalle risposte giunte dalla Nato e dagli Usa sembra proprio di no. Per gli alleati, infatti, una guerra su vasta scala è possibile solo in caso di estensione del conflitto ai paesi dell’Europa Orientale membri della Nato( come la Polonia o i Paesi baltici). Uno scenario al momento surreale, ma che rende bene l’idea di come in questa guerra ad avere il coltello dalla parte del manico sia Vladimir Putin e non l’Occidente. articolo di Gianmarco Pucci
bersaglio mobile
Se fosse un legal drama, uno di quelli che piace tanto agli americani, lo si potrebbe intitolare ” tutti gli uomini di Matteo Renzi “. Invece, con il famoso film di Pakula del 1976, narrante la vicenda del Watergate, l’inchiesta sulla fondazione Open sembra avere ben poco in comune. Se non altro perché Renzi, a differenza di Nixon, non sembra avere intenzione di restare in silenzio. Infatti, ha già annunciato querela nei confronti dei magistrati di Firenze che lo hanno indagato per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Secondo il leader di Italia Viva sarebbe in atto da anni, verso di lui e la sua famiglia, una vera e propria persecuzione da parte dei giudici di Firenze. Per Renzi, inoltre, i PM non avrebbero la credibilità per indagare o processare lui e il suo entourage. Da qui la denuncia del senatore per abuso d’ufficio, violazione dell’articolo 68 della Costituzione e della legge 140/2003 a tutela dell’immunità parlamentare, sporta contro il procuratore Creazzo e i sostituti Nastasi e Turco. Pronta al riguardo è stata la replica dell’ANM, la quale ha definito le parole di Renzi inaccettabili per il prestigio della Magistratura. Però, ed è appena il caso di dirlo, le accuse di Renzi non sono totalmente infondate. L’inchiesta su Open, fondazione creata per gestire i fondi a sostegno di Renzi, ha preso avvio dopo la nascita di Italia Viva nel 2019. Da allora, come lamentato dal diretto interessato, lui e la gente a lui vicina sono stati bersagliati da accuse, talvolta rivelatesi destituite di ogni fondamento giuridico. A partire dall’arresto dei genitori di Renzi, ordinato nel 2019 dal PM Luca Turco( lo stesso che oggi incrimina l’ex premier) e poi annullato dal Tribunale del Riesame. Oppure le inchieste che hanno visto coinvolti in passato i deputati Lotti e Boschi, esponenti di spicco del “giglio magico” renziano, e che oggi tornano ad essere inquisiti nell’ambito di un’inchiesta puramente indiziaria e, pertanto, di dubbia moralità. Etica che difetta, come difettava anche nei processi a carico di Berlusconi, per il modo in cui le indagini vengono condotte e per il merito delle questioni trattate. Non è, infatti, equa una giustizia che ricorre, in violazione delle più normali norme costituzionali e di procedura, ai Trojan per spiare indebitamente le conversazioni fra privati, senza l’autorizzazione della competente autorità giudiziaria. Non è, inoltre, eticamente tollerabile che la Magistratura entri a gamba tesa ad alterare le vicende politiche di una nazione ogni volta che lo ritenga opportuno e per favorire la carriera di singoli magistrati. Carrierismo che, come certificato anche dai recenti scandali che hanno interessato il variegato mondo della giustizia, è la principale fonte del cortocircuito, tipicamente italiano, fra giustizia e politica. Lo ha detto nel suo discorso di insediamento anche il Presidente Mattarella, il quale ha invitato il Parlamento a non procrastinare una riforma della giustizia quanto mai urgente. L’invito, ed è storia di questi giorni, è stato accolto dal governo ed è un’ occasione da non perdere per troncare i torbidi legami fra magistrati e politici. Legami che hanno reso malsano il clima che si respira nelle aule di giustizia italiane. In tal senso, proprio la coincidenza fra il varo della riforma e la resurrezione dell’inchiesta Open, apre la porta a dubbi e congetture. Si tratta solo di coincidenze oppure siamo di fronte all’ennesimo colpo di coda di un sistema che non accetta di essere messo in discussione? Che si voglia colpire uno per mandare un segnale a tutti gli altri? Alle prossime ore l’ardua sentenza, possibilmente non di condanna. articolo di Gianmarco Pucci
Schegge impazzite
E pensare che solo un paio di anni fa, forte del sorprendente risultato conseguito alle elezioni Europee, in molti lo vedevano già leader in pectore del nuovo centrodestra italiano. Invece, Matteo Salvini è riuscito nel giro di un battito di ciglia a disperdere tutto quel consenso che, attingendo alla retorica populista che gli è propria, aveva guadagnato agli esordi di questa legislatura. Un inizio che, però, non era cominciato sotto i migliori auspici. L’alleanza demagogica con il M5S non ha infatti portato bene al leader della Lega, rivelandosi per lui un vero e proprio abbraccio della morte. Basta pensare a come quella parentesi si è conclusa, ovvero con l’uscita della Lega dal governo in favore del PD. Un metodo che tafazzianamente Salvini continua da allora a replicare, evidenziando il proprio dilettantismo politico. Come l’idea, dopo la fine del Conte bis, di entrare nel governo Draghi, mostrandosi critico a fasi alterne, in nome di un malsano istrionismo che porta il personaggio a credersi il centro del mondo. Esibizionismo che ha replicato anche in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica. Solo così si può definire, infatti, il metodo adottato da Salvini per scegliere il successore di Mattarella. Un metodo ,che privilegiando la contrapposizione al dialogo, ha portato all’unico risultato di spaccare la coalizione di centrodestra, favorendo la propria marginalizzazione e la resurrezione di altri. In primo luogo quella di Silvio Berlusconi, che come l’Araba Fenice è risorto ancora una volta dalle ceneri, dimostrandosi più scaltro di Salvini nel prevedere le manovre parlamentari e le mosse degli avversari. Proprio ieri Forza Italia ha fatto sapere che Berlusconi sta lavorando per potenziare il versante moderato della coalizione. Moderati che, considerando anche la costante crescita del partito del non voto, si rivelano sempre più decisivi nel vincere le competizioni elettorali. Salvini è, inoltre, riuscito nell’intento di rafforzare il ruolo di Fdi e di Giorgia Meloni. La leader della destra italiana, infatti, conclusasi la campagna per il Quirinale, è stata la prima a certificare la dissoluzione dell’alleanza, rivendicando per sé il ruolo di faro del populismo italiano. Si può allora facilmente dedurre che il futuro per il leader del Carroccio non è più così roseo, celandosi dietro il raffreddamento dei rapporti con gli alleati il rischio di un crescente isolamento della Lega nell’arco costituzionale. Da mesi, infatti, in via Bellerio non si parla d’altro della fronda interna al partito capeggiata da Giorgetti e sostenuta dai governatori, sempre più insofferenti verso la linea oppositiva e movimentista del “capitano”. Malumori che negli ultimi giorni sono stati condivisi pure da Umberto Bossi, fondatore e storico segretario della Lega Nord. Per Bossi, che non ha mai nascosto la sua antipatia per Salvini, la Lega deve tornare alle origini, abbandonando la deriva nazionalistica verso cui l’ha condotta l’attuale segretario. Ha poi ammonito i suoi relativamente alla necessità di traghettare il partito nel PPE, ricordando come la Lega appartenga geneticamente alla sinistra e alla tradizione federalista-autonomistica. Parole queste che dovrebbero indurre a una sana riflessione sul futuro, specialmente in vista delle elezioni dell’anno prossimo. Eppure, Salvini, sempre più solo all’interno del centrodestra, continua a scambiarsi accuse con gli (ex) alleati, addebitando a loro i suoi errori. Un atteggiamento che testimonia il nervosismo del segretario, ma anche la sua frustrazione per l’ennesima batosta che allontana il centrodestra da una vittoria politica ormai non più così scontata. articolo di Gianmarco Pucci
Se questo è un Parlamento
Giorgio III d’Inghilterra, apprendendo della Dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane, disse ironicamente che il 4 Luglio 1776 sarebbe stato ricordato come il giorno in cui non era accaduto niente di importante per il mondo. Lo stesso si potrebbe dire per ciò che è accaduto da noi in Italia nelle ultime ore. Ancora una volta, dopo il precedente di Napolitano, il Parlamento si è trovato costretto ad adottare per il Quirinale una soluzione di ripiego, derogando alla prassi costituzionale che non contempla la rielezione del Capo dello Stato. Come nel 2013, si è preferito infatti convergere sul nome di Sergio Mattarella per nascondere la crisi strutturale dei partiti, gli unici veri sconfitti in questa elezione per la presidenza della Repubblica. Una crisi che evidenzia la debolezza delle istituzioni democratiche e di cui la crescente sclerotizzazione della classe dirigente è indice indefettibile. Certamente il metodo di proporre nomi da sacrificare in aula non ha pagato, così come non ha pagato la sordità di quelle forze politiche che hanno scelto di non decidere, celandosi dietro veti e obiezioni. In tal senso, coloro che in queste ore plaudono alla rielezione di Mattarella sono i principali sconfitti di questa campagna per il Quirinale. Matteo Salvini ha, in merito, dichiarato di avere la coscienza a posto e di avere fatto tutto il possibile per scongiurare lo stallo parlamentare. In vero, Salvini, che in queste ore è finito sul banco degli accusati, è il principale responsabile di questa disfatta. Lo è, perché per la prima volta il centrodestra aveva avuto la possibilità di eleggere un suo esponente alla più alta carica dello Stato e si è disperso proponendo nomi irricevibili. Carente è stato anche il metodo impiegato dal leader della Lega per stimolare la condivisione riguardo a un nome comune. Esso, invece che condurre alla sintesi, ha al contrario sortito l’effetto opposto di deviare la discussione sul binario morto del “muro contro muro”. Non a caso in molti, dentro e fuori la Lega, accusano Salvini di avere vanificato l’unità della coalizione, dimostrandosi non all’altezza della situazione. Ugualmente sconfitto in questa tornata è stato il Partito Democratico. Il segretario Letta, infatti, respingendo ogni proposta degli avversari, si è trovato costretto alla fine a sposare la linea del M5S, che fin dall’inizio di questa avventura si era speso per una riconferma di Mattarella. Per uscire da questo vicolo cieco, Letta avrebbe potuto proporre il nome di Mario Draghi. Tuttavia, a causa del fuoco incrociato delle correnti, si è incartato, uccidendo la candidatura sul nascere. Ciononostante, il premier ha avuto un ruolo non secondario nella contesa. La sua mediazione, iniziata dopo il confronto con Salvini a Palazzo Chigi, ha permesso di sbloccare la situazione, rafforzando il suo ruolo di risorsa indispensabile per la Repubblica. Un fatto singolare da cui traspare, però, la sempre maggiore irrilevanza verso cui stanno scivolando i partiti politici. Paradossalmente, questa è stata la prima campagna per il Quirinale che ha visto fiorire un gran numero di candidature tecniche( Belloni, Massolo, Cassese) e che è stata risolta da un tecnico. In realtà, il protagonismo degli “alti profili” inizia a divenire preoccupante e si pone come indice della deriva autocratica verso cui le democrazie occidentali si stanno avviando. Il timore è che attribuendo eccessiva importanza a una singola persona, pur dotata di straordinarie competenze, si possa arrivare a ritenere dannose e inutili le istituzioni. Non a caso, dopo questa magra figura, si è tornato a parlare di elezione diretta del Capo dello Stato. Un’opzione che, almeno per quello che riguarda il nostro paese, non è preferibile per due motivi. In primis, perché comporterebbe una modifica dell’ordinamento assai rilevante. In secundis, perché attraverso l’introduzione del Presidenzialismo si realizzerebbero i sogni più torbidi di quanti negli ultimi quarant’anni hanno tentato in tutti i modi di sbarazzarsi della nostra Costituzione. E questo è un rischio che non possiamo assolutamente permetterci. articolo di Gianmarco Pucci
L’ inverno della famiglia
” Si è persa ormai la fiducia di fare figli e questa è una vera tragedia”. A dirlo è Papa Francesco nella sua lettera agli sposi, diffusa durante la giornata dedicata alla festa della Sacra Famiglia di Nazareth lo scorso 26 Dicembre. Il Santo Padre torna, dunque, dopo averlo già fatto in Amoris Laetitia, a parlare della famiglia e dei problemi che più la affliggono. E fra questi non può non esserci la diminuzione delle nascite che, secondo il Pontefice, starebbe generando un vero e proprio inverno demografico. Complice, infatti, il costante calo dei matrimoni e la crescente incertezza verso il futuro, molte giovani coppie si trovano costrette a rinviare il momento del concepimento. Esso è il dono più grande offertoci da Dio per realizzare quella comunione con lo Spirito Santo, iconograficamente rappresentata dalla notte di Betlemme. Eppure, nonostante ciò, l’Italia continua ad essere un paese con un tasso di natalità prossimo allo zero. Lo ha certificato anche l’ISTAT, il quale ha registrato un decremento del 2,5% delle nascite nel nostro paese rispetto al 2020( circa 12.500 bambini in meno per famiglia). A pesare, soprattutto, è il costo della crisi economica prodotto dalla Pandemia e l’aumento dell’aspettativa di vita media, che sta trasformando l’Italia in un paese di anziani. Parallelamente a tale innalzamento, aumenta anche l’età in cui le donne decidono di avere il primo figlio. Dai 28 anni del 1995 si è passati ai 32 anni come età media per concepire. Ulteriore nota dolente è, inoltre, il numero di figli per famiglia. In assenza di serie politiche a sostegno della famiglia, è sempre più alto il numero di nuclei con un solo figlio. Un fenomeno questo su cui si è soffermato anche Papa Francesco nell’Angelus di Domenica scorsa. Per il Santo Padre, infatti, tale scelta evidenzia la crisi profonda attraversata dall’istituto familiare. Un istituto sempre più minacciato dalle incomprensioni fra i coniugi e dal ricorso frequente al divorzio o alla separazione. Per Francesco, nella famiglia moderna manca quella interazione fra i suoi componenti in grado di trasformare il focolaio domestico in luogo dell’incontro e del dialogo. Un’attitudine che, a ben vedere, si è persa un po’ ovunque e che attesta, ancora più limpidamente, come la crisi della famiglia rispecchi la crisi della nostra società. Da qui l’invito del Papa alle giovani coppie a non nutrire risentimento gli uni verso gli altri e, soprattutto, a non stancarsi della vita coniugale, anche quando essa possa apparire gravosa o soffocante. Costruire una nuova famiglia significa, infatti, mettersi in gioco ogni giorno per trasmettere a chi verrà dopo di noi quegli stessi insegnamenti di cui siamo al contempo eredi e debitori nei confronti di chi ci ha preceduto. Un compito certamente non facile, essendo quello di istruire ed educare la missione più difficile affidata da Dio all’uomo, ma che reca con sé la più gratificante delle promesse: quella di vedere in un altro individuo la prosecuzione della propria opera e, in definitiva, della volontà del Creatore. Per questo motivo, non si può che accogliere l’appello di Sua Santità a fare di tutto per invertire la rotta e contrastare la galoppante recessione demografica. Essa è contro la famiglia, contro la patria e, infine, contro la vita. Se una società si rende sterile non vi può essere futuro. E senza futuro nessuna vita può dirsi degna di essere vissuta. Rammentiamolo sempre!
L’ irrazionale
Siamo minacciati dall’irrazionalità. A dirlo è il Censis nel suo consueto rapporto annuale sulla situazione sociale del paese. Secondo l’istituto di ricerca, una fetta sempre più consistente di italiani è vittima di falsi miti e credenze. Pregiudizi figli dell’ignoranza che, come in un circolo vizioso, alimentano quell’ isteria di massa che da mesi ha scelto come bersaglio privilegiato il vaccino anticovid. Non stupisce, quindi, che proprio al vertice della classifica stilata dai ricercatori vi siano i seguaci del movimento No Vax e No Green Pass. Per il Censis, infatti, il 5,9% degli italiani crede che il virus non esiste. Di questi l’11% ritiene il vaccino un farmaco sperimentale, dannoso per la salute dell’uomo e messo in campo dal mercato al solo scopo di lucrare sui relativi profitti. Da qui la fuga verso la medicina alternativa, ritenuta più affidabile di quella ufficiale, e la scienza alchemica praticata da maghi e sedicenti stregoni. Lo scetticismo verso la scienza ha, inoltre, favorito il rifiorire di altre teorie metascientifiche. Come il Terrapiattismo, ovvero la bizzarra credenza secondo cui la Terra non sarebbe rotonda, come accertato da Copernico, ma piatta( ciò è tale per il 5,8%) . Oppure la leggenda metropolitana secondo cui l’uomo non è mai arrivato sulla Luna( 10,9%). Tale negazionismo storico-scientifico ha, inoltre, rafforzato le più strambe teorie complottiste. Fra cui quella di stretta attualità che vede nella tecnologia 5G un sofisticato strumento di controllo del pensiero( 19,9%) o quella che ritiene l’immigrazione fuori controllo parte di un grande progetto di “sostituzione etnica”, perpetrata dalle élite mondiali per motivi pressoché ignoti( 39%). Concetti che esprimono in pieno i paradossi della modernità e che fungono da corollario per le paure dell’uomo del Terzo Millennio. Come ha giustamente rilevato il Censis, la fuga verso l’irrazionalità non è da intendersi come una semplice distorsione dell’attuale paradigma socio-economico, ma come un vero e proprio rifiuto della razionalità positiva. Quella stessa razionalità che ha permesso all’uomo nei secoli passati di progredire sulla strada della crescita e del benessere, ma che oggi fatica a dare risposte ai problemi del mondo. Ciò è ancora più evidente se si tiene conto che, malgrado l’impetuosa crescita del Pil di quest’ anno, l’81% degli italiani guarda con maggiore sfiducia al futuro rispetto agli anni passati. Insoddisfazione che, invero, colpisce soprattutto i giovani, per i quali in molti casi l’impegno profuso nello studio e nel lavoro non si rivela idoneo ad assicurare loro un avvenire certo e sicuro. Da qui la rivalutazione critica del passato e la ricerca di rimedi che permettano di distogliere l’attenzione dai gravosi problemi della quotidianità. Verrebbe quasi da dire, parafrasando Karl Marx, che l’irrazionalità negativa si appresta a diventare l’oppio dei popoli, favorendo in tal senso la creazione di una società di alienati. Al contrario, sarebbe più opportuno coltivare l’irrazionalità positiva esaltata dai romantici. Quella cioè, che vedendo nel sogno la sintesi perfetta fra ragione e sentimento, non degenera nella superstizione, ma che eleva verso la conoscenza. Condizione questa che, per citare Kant, dovrebbe indurre l’uomo a usare la propria intelligenza, rifuggendo da streghe e alchimisti.
C’era una volta la Mala del Brenta
Dopo anni di silenzio la Mala del Brenta è tornata a far parlare di sé. Era, infatti, dai tempi dell’arresto di Felice Maniero, suo storico e carismatico capo, che la malavita veneta aveva smesso di fare notizia. Un silenzio che, tuttavia, ha favorito la progressiva riorganizzazione della banda ad opera di esponenti della fazione mestrina e che ha interrotto anni di apparente torpore. Essi, secondo gli inquirenti, al fine di riprendere il controllo del territorio e recuperare il prestigio perduto erano pronti a colpire di nuovo, vendicandosi in primo luogo dei clan concorrenti e dei membri della banda divenuti collaboratori di giustizia. Fra questi proprio Maniero, il cui pentimento nel 1994 aveva messo prematuramente fine alla storia della mafia del Triveneto. Regione che vai, dunque, malavita che trovi. Se, infatti, il Mezzogiorno d’Italia vanta una lunga tradizione criminale, originatasi all’indomani dell’unificazione e perpetuatasi con il brigantaggio, nulla di diverso si è verificato in Settentrione. Al contrario, quella formatasi nel Nord-Est costituisce ancora oggi un caso di mafia autoctona, diversa e al contempo complementare a quelle sviluppatesi nell’Italia meridionale. Essa, similmente a quanto fatto a Roma dalla Banda della Magliana, è riuscita nell’intento di unificare la frastagliata malavita locale, dando forma e organizzazione a una criminalità ancora prettamente rurale. Malavita che, tuttavia, si ritroverà a fare ben presto il salto di qualità, essendo proprio in quegli anni( siamo sul finire degli anni “70”) il Veneto, in particolare Venezia e Padova, meta di soggiorno obbligato per alcuni esponenti di spicco di Cosa Nostra. Uomini che forniranno alle giovani leve del crimine locale un modello da seguire, permettendo loro di approfittare del fiorente traffico di droga che proprio in laguna aveva iniziato a sostituire il tradizionale contrabbando di sigarette e di generi alimentari. Fu così, allora, che nel giro di pochi anni nacque la Mala del Brenta, una banda che seminando terrore e morte riuscì a estendere il proprio potere su tutta la Val Padana. In particolare il suo capo, Felice Maniero detto “Faccia d’angelo”, con la propria intraprendenza riuscirà a ritagliare per i criminali di Campolongo sul Brenta( comune di nascita di Maniero e luogo di ritrovo dei suoi sodali) un posto d’onore nell’Olimpo del crimine italiano. Dallo spaccio di droga alle rapine, dai sequestri agli omicidi fino ad arrivare alle estorsioni ai danni dei cambisti del Casinò di Venezia saranno tante le azioni delittuose partorite e messe in atto da Maniero. Tuttavia, le inchieste giudiziarie dei primi anni “90”, unitamente al crescere del fenomeno del pentitismo, contribuiranno al rapido declino del sodalizio criminale che proprio con Maniero inizia e finisce. Le sue rivelazioni ai magistrati, infatti, porteranno al repentino smantellamento della sua banda, attirandogli l’odio di coloro che proprio con lui avevano iniziato la loro scalata al crimine. Un rancore che si è conservato negli anni e che oggi, all’indomani dei 39 arresti eseguiti dal Ros e dalla Dda di Mestre, continua ad alimentare il mito di questo Crono della malavita veneta, tanto onnipotente quanto sfuggente a qualsivoglia giudizio obiettivo. Un mito,che al pari di quello del Dio greco, rischia di trasformare Maniero da carnefice in vittima del primo parricidio della storia della mafia italiana.
Racconto di una rivoluzione mancata
Il 1968 è stato senza ombra di dubbio uno degli anni più significativi nella storia del XX Secolo. Un anno che, come una rapida istantanea, ha ritratto un periodo, incorniciando quella stagione di grandi speranze iniziate nel 1960. Tuttavia, nonostante l’economia mondiale prosperasse, erano ancora molte le contraddizioni generate dalla moderna società dei consumi. Contraddizioni che descrivevano un mondo fermo al decennio precedente, in cui le differenze sociali e razziali erano ancora predominanti. Infine, la Guerra Fredda, la costate minaccia nucleare e ,da ultimo, l’insorgente conflitto in Vietnam, restituivano un quadro della situazione internazionale fortemente precario, costruito sulla temporanea non belligeranza fra Usa e Urss. È, dunque, in questo contesto che matura la contestazione giovanile nelle università americane. le prime proteste iniziarono a Berkeley, in California. Qui gli studenti, seguendo gli insegnamenti filosofici di Herbert Marcuse, occuparono il campus per ore, protestando contro la guerra in Vietnam e gli stili di vita imposti dal consumismo. Per i giovani, in perfetta sintonia con il credo gandhiano della non violenza, occorreva costruire un mondo nuovo, senza più frontiere né muri, in cui la libertà poteva essere fruita da tutti. Fu così, seguendo l’onda lunga delle proteste negli Usa, che la contestazione giunse, nel giro di pochi anni, anche in Europa. Uno straordinario ruolo di propaganda, in tal senso, fu svolto dalla televisione, che trasmettendo quotidianamente le immagini delle proteste in America contribuì a rendere la rivolta globale. In Italia la prima università a venire occupata fu quella di Trento nell’Autunno del 1967. A seguire la Cattolica di Milano, la Normale di Pisa, le Università di Torino, Napoli e Roma. Nella Capitale, il Sessantotto si materializzò all’indomani dell’occupazione della Facoltà di Architettura, a Valle Giulia, in cui gli scontri particolarmente cruenti con la polizia furono motivo di biasimo da parte di politici e intellettuali( tra cui Pier Paolo Pasolini) e suscitarono un certo allarme sociale nell’opinione pubblica. La contestazione, infatti, iniziò ad assumere venature politiche sempre più evidenti e, con il passare dei mesi, coinvolse anche gli operai. Essi, dal canto loro, diedero vita a un vivace movimento di lotta che ambiva a colmare le diseguaglianze generate dalla società del benessere. Tale convergenza di idee fra il movimento studentesco e quello operaio si realizzò compiutamente in Francia. Soprattutto a Parigi, dove nel mese di Maggio migliaia di persone scesero in piazza per contestare il governo di De Gaulle e la vecchia società tradizionalista, capitalista e imperialista che il generale rappresentava( fu il cosiddetto Maggio francese). Il connubio fra studenti e operai durerà qualche anno e produrrà effetti anche in Italia, raggiungendo il suo apice nell’Autunno caldo del 1969. Tuttavia, nonostante i suoi genuini propositi, la contestazione ebbe vita breve, risolvendosi in un mero fuoco di paglia. Gli storici più accreditati, a tal riguardo, sono ormai concordi nell’affermare che essa fu una rivoluzione culturale mancata. Pur muovendo da giuste premesse di rinnovamento della società, essa ha finito troppo presto per arenarsi sul progetto, chiaramente utopico, di costruire un mondo ideale, senza più classi sociali o status privilegiati. Tale premessa porterà, all’indomani del fallimento della contestazione, alla radicalizzazione del dibattito socio-politico e alla nascita del terrorismo durante gli “anni di piombo”. Fulgidi esempi di tale deriva violenta sono state certamente le Brigate Rosse in Italia e la banda Baader-Meinhof in Germania. Eppure, nonostante la schizofrenia ideologica che lo ha contraddistinto, il Movimento del “68” ha comunque contribuito, a suo modo, al progresso della società. Se, infatti, non è riuscito a fornire un modello di società, diverso e alternativo, rispetto a quello avversato, è però stato capace di incidere sull’evoluzione dei suoi costumi, anticipandone gli effetti. Dalla musica al cinema, dalla radio alla tv, fino alla moda e al linguaggio sono state tante le novità che il “68” ha introdotto, svecchiando una società troppo spesso bigotta e perbenista. In questo senso le grandi battaglie degli anni “70” a favore della legalizzazione dell’aborto e del divorzio sono sicuramente da ritenere il più grande lascito di questo fenomeno che ha riscritto la storia del Novecento.
Marea nera
“Si è trattato di un attacco preordinato, squadrista e di chiara matrice fascista”. Con queste parole il Segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, si è espresso per condannare l’assalto dell’altro ieri alla sede romana del sindacato. Per Landini, infatti, l’aggressione subita dalla Cgil è una grave ferita per la democrazia e testimonia, qualora ce ne fosse ancora bisogno, di come essa sia sempre più minacciata da una chiara recrudescenza neofascista. Fascismo che oggi si ripropone sotto le spoglie del Sovranismo, ma che non ha minimamente mutato la propria essenza. Al contrario, approfittando della crisi sociale innescata dall’emergenza sanitaria, esso cerca, in modo subdolo e meschino, di veicolare le sue idee eversive, sfruttando il malcontento popolare e servendosi della violenza come mezzo di affermazione della propria identità. Tale camaleontismo, tuttavia, non sorprende, essendo da sempre l’estrema destra incline a mutare forma a seconda delle circostanze e del periodo storico. E se, dunque, un secolo fa i fascisti attaccavano le Camere del lavoro per difendere lo Stato dal “pericolo rosso”, oggi, invece, lo farebbero per tutelare l’ordine costituzionale. Sempre per tutelare l’ordine precostituito essi si ritrovano a sposare le più assurde teorie complottiste, mettendo in dubbio la scienza e le sue istituzioni. Ma soprattutto per boicottare un governo che, a parer loro, farebbe esclusivamente l’interesse dei poteri forti e delle grandi élite finanziarie mondiali. Un governo, che con l’introduzione del Green Pass obbligatorio dal prossimo 15 Ottobre, si appresterebbe a gettare la maschera, spogliando il popolo delle proprie libertà costituzionali. Fin qui le motivazioni che hanno indotto Roberto Fiore e i suoi camerati ad assaltare la sede della Cgil. Ma si tratta di motivazioni identiche a quelle addotte da altri movimenti neofascisti, che in Europa stanno dilagando causa della crisi delle forze politiche democratiche e progressiste. Crisi che anche qui da noi in Italia ha visto emergere partiti antisistema e ostili al multiculturalismo e alla globalizzazione. Come Fdi e la Lega, che pur non aderendo pienamente alle idee estremiste di Forza Nuova ne condividono parte della retorica populista. In particolare, si sono evidenziati singolari punti di contatto fra Fdi e la galassia neofascista da cui provengono Fiore e Castellino. Un’inchiesta di alcune settimane fa, condotta dal giornale on line Fanpage, ha infatti ripreso in video, durante una cena in un ristorante di Milano, l’eurodeputato di Fdi, Carlo Fidanza, mentre interloquiva con il fantomatico barone nero Roberto Jonghi Lavarini. Un soggetto di comprovata fede fascista( da cui il folkloristico soprannome) accusato in passato di intrattenere relazioni con la massoneria e i servizi segreti deviati. Nel video si vedono Fidanza e altri convitati pronunciare frasi antisemite, cantare canzoni del ventennio ed esibirsi in saluti romani. Fidanza, in attesa di acquisire il girato completo, è stato sospeso dal partito da parte di Giorgia Meloni. Ciononostante, il comportamento della Meloni è sembrato a tratti ambiguo. Atteggiamento che ha replicato dopo la notizia dei fatti di Roma e che ha innescato nuovi e ulteriori polemiche. Più precisamente, Meloni ha dichiarato che è in atto una macchinazione della sinistra per danneggiare lei e il suo partito. Secondo lei, infatti, gli avversari starebbero tramando di escluderla dall’arco costituzionale, nascondendosi dietro il pretesto che Fdi è un partito fascista. Accuse che in queste ultime ore, a dispetto delle coincidenze, sta trovando terreno fertile anche nella campagna elettorale per le amministrative. A Roma, in particolare, dove Domenica e Lunedì si voterà per il ballottaggio, hanno destato scalpore le parole usate da Enrico Michetti, candidato sindaco del centrodestra, per minimizzare l’eccidio degli ebrei da parte dei nazifascisti. Frasi che hanno suscitato indignazione unanime da parte della politica e della comunità ebraica e che hanno indotto il diretto interessato a un doveroso mea culpa. Eppure, nonostante ciò che è stato detto e ciò che è avvenuto in queste ultime ore c’è chi ancora nega l’evidenza, tentando di banalizzare e quindi minimizzare un fenomeno in preoccupante crescita. Un fenomeno che descrive a pieno la crisi della democrazia moderna, del suo paradigma socio-culturale e che usa il negazionismo per abbattere lo Stato di diritto, seminando caos e disordine.