I moti di Settembre

La storia, si sa, la scrivono sempre i vincitori, anche quando essa non rende il dovuto onore alla realtà dei fatti. All’indomani dello Sbarco dei Mille a Marsala, sostenuto politicamente dalla Dinastia sabauda, nessuno ha ricordato più le gesta di quanti, specialmente al sud, ben prima del 1860 si sono battuti per l’Unificazione italiana. È accaduto con la Rivoluzione siciliana del 1848, che ha segnato l’inizio di quel fervore patriottico che, sotto il nome di Risorgimento, ha risvegliato gli animi di un’intera generazione di europei. Ed è accaduto anche con riguardo ai moti del settembre del 1847, segno tangibile del contributo calabrese alla causa dell’Italia unita. Tutto inizia il 2 settembre, allorché il giovane patriota Domenico Romeo, natìo del paese di Santo Stefano in Aspromonte, si ribella al regime borbonico. Romeo, a capo di un manipolo di 500 seguaci, si impossessa rapidamente della città di Reggio Calabria, insediandovi un governo provvisorio presieduto dal canonico Pietro Pellicano. La rivolta, che mirava a deporre il governo del Re non ebbe, tuttavia, gli esiti sperati e non suscitò nell’animo della popolazione quello stesso ardore civile che animava i giovani patrioti. Infatti, l’insurrezione, che avrebbe dovuto espandersi anche al di fuori dei confini calabresi, finì per fallire a causa della mancata unità di intenti dei liberali meridionali. Fu così che dopo un primo momento di smarrimento, il governo di Francesco II di Borbone, Re del Regno delle Due Sicilie, organizzò una pronta e cruenta repressione ai danni degli insorti, conclusasi con l’assassinio e la decapitazione di Romeo. Era il 15 settembre, la rivolta era stata domata e la testa del capo dei cospiratori fu per ordine del Sovrano lasciata esposta per due giorni nel cortile del carcere San Francesco di Reggio Calabria. Un chiaro monito, quest’ultimo, rivolto a chiunque  avesse osato in futuro ribellarsi alla volontà regale. Il tentativo di Domenico Romeo non fu, però, l’unico moto rivoluzionario che interessò la Calabria durante il Risorgimento. Solo tre anni prima, infatti, i fratelli Attilio e Emilio Bandiera, ufficiali della regia marina  austriaca, appresa la notizia di una sollevazione popolare a Cosenza contro il Re ( guidata fra l’altro dal figlio di Pasquale Galluppi, noto filosofo calabrese al quale oggi è intitolato il liceo classico di Catanzaro), disertarono gli ordini e giunsero da Corfù in Calabria. Giunti alla foce del fiume Neto, i Bandiera con un manipolo di circa 20 uomini si diressero a Cosenza, dove nel frattempo le guardie regie avevano ripreso il controllo della situazione. Sfortunatamente il gruppo fu tradito da un compagno d’armi e i due fratelli, insieme a 7 loro compagni, furono fucilati a Rovito, alle porte di Cosenza. È evidente come il clima politico nella Calabria dell’epoca fosse tutt’altro che sereno. La regione aveva subito in prima persona le sanguinose vicende connesse all’instaurazione della Repubblica Partenopea del 1799. La successiva repressione organizzata dal Cardinale Ruffo, le faide fra giacobini e sanfedisti, fino ad arrivare alle campagne napoleoniche e alla restaurazione avevano lasciato il Mezzogiorno sospeso fra rispetto delle tradizioni e apertura alla modernità. Proprio in quegli anni, malgrado un’economia ancora legata alla terra, fortemente gravata dall’osservanza dei vincoli di derivazione feudale e dalla persistenza di un sistema basato sul latifondo, il Regno di Napoli intraprese una serie di riforme volte ad accrescere lo sviluppo economico del territorio. Difatti, nel 1861, al momento dell’Unificazione, il Regno presentava un bilancio in attivo di 35 milioni di Ducati ( pari a 560 milioni di Euro) e un livello di disoccupazione inferiore a quello degli altri Stati preunitari. Grazie all’unificazione del sistema monetario e alla creazione di un ingegnoso sistema di tariffe doganali, fu inoltre possibile favorire la crescita tanto del settore terziario quanto dell’artiginato. L’industria raggiunse proprio in quegli anni punte di eccellenza nella siderurgia ( le industrie di Pietrarsa vantavano un livello di prestazioni pari all’Ansaldo di Genova), nell’industria del ferro( emblematico il caso della Ferriera  di Mongiana, nei pressi di Serra San Bruno, dove si produsse per più di un trentennio ghisa e ferro) e in quella mercantile, la quale vantava una flotta che era la quarta al mondo per grandezza. Tutto ciò terminò con la deposizione della Dinastia borbonica e l’unificazione sotto il Regno sabaudo, che assorbì gran parte delle ricchezze del Mezzogiorno. La rapacità dei nuovi sovrani fu, quindi, vista come un tradimento di quegli ideali unitari per cui molti patrioti meridionali avevano sacrificato la vita. Questa percezione proseguì  nei decenni successivi e lo Stato fu sempre più visto come un oppressore, un dispensatore di tasse e balzelli, connivente con quelle “onorate società ” che riuscirono a imporsi come intermediari fra lo Stato e la popolazione, tra braccianti e proprietari terrieri. Ne nacque un fenomeno sociale, quello del Brigantaggio, che al grido di “sono secoli che abbiamo fame” non tardò a esplicitare la propria rabbia verso quello Stato che li aveva prima usati e poi abbandonati a se stessi. La risposta, come è noto, fu durissima: il governo emanò già nel 1863 la legge Pica, che lasciava carta bianca all’esercito di reprimere il fenomeno nel modo più rapido possibile, prescindendo da qualsivoglia implicazione etica o umana. I piemontesi, pertanto, mostrarono ben presto il loro vero volto, non meno feroce di chi li aveva preceduti e non più disponibile a barattare la cieca ragion di Stato con l’accoglimento di qualsivoglia istanza sociale. Per questo motivo, l’eco di tali fatti finì per offuscare a lungo il ricordo di quanti si batterono per l’Italia unita nel Mezzogiorno. Memoria storica che fu recuperata anni dopo solo grazie all’opera di intellettuali e studiosi del Risorgimento che per primi, in virtù della propria provenienza geografica, parlarono di una “Questione Meridionale” e delle implicazioni fra questa e le lotte patriottiche. Per merito di costoro si è progressivamente potuti arrivare ad avere una coscienza storica e civile comune, che rendono vivido ancora oggi il ricordo di quanti morirono per l’Italia moderna. Meritevole di nota è, in tal proposito, la lapide che ricorda i caduti di Gerace, morti proprio in conseguenza dei moti del settembre del 1847. Segno questo  ineludibile che a livello di idem sentire qualcosa è profondamente cambiato nell’animo dei calabresi negli ultimi 150 anni.

Perché no?

Il prossimo 20 e 21 Settembre gli Italiani saranno chiamati alle urne per il rinnovo dei Consigli Regionali in sette regioni e per confermare , tramite apposito referendum , la legge di riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Quest’ultima , licenziata dalle Camere lo scorso Ottobre , se approvata comporterebbe una significativa riduzione della rappresentanza parlamentare. Si passerebbe , infatti , da 630  a 400 deputati per la Camera e da 315 a 200 membri per il Senato per un totale di 600 parlamentari, dunque 345 in meno rispetto agli attuali 945. In verità la riforma , al di là di ogni facile demagogia , non può che suscitare perplessità e obiezioni in virtù della portata riduzionistica che la connota. Si è detto che la legge in questione permetterebbe , dopo un attesa pluridecennale , di snellire l’iter di formazione e approvazione delle leggi, garantendo oltretutto un significativo risparmio di spesa. Ciò è facilmente confutabile per due motivi: in primo luogo, perché  le casse dello stato ricaverebbero dal taglio solo 57 milioni di euro( pari allo 0,007% del spesa pubblica annuale e complessiva dello stato) e non 100 milioni come ha sostenuto candidamente Luigi Di Maio, principale sponsor insieme al M5S della riforma; in secondo luogo ,  è chiaro come il sole che se non si interviene in maniera decisa sugli stipendi e sulle indennità dei parlamentari Italiani( che sono fra le più alte di Europa) non ci potrà essere alcun serio risparmio per i conti pubblici. Verrebbe pertanto da chiedersi perché chi si è reso fautore di una simile riforma non abbia seguito questa strada per colpire i privilegi dei politici e si sia invece  prodigato in favore di un argomento così velleitario e smaccatamente populista. A tale domanda non c è ancora risposta se non il rinvio del tema a giorni migliori. Tuttavia, è sotto il profilo sostanziale della rappresentanza che l’impianto della legge rischia di creare le più vistose distorsioni. Innanzitutto si rischia di alterare,  in modo pressoché irrimediabile , il rapporto fra eletto ed elettore con  territori meno rappresentati rispetto ad altri. Paradigmatici a tal proposito sono ad esempio il caso della provincia di Savona che non elegerebbe nemmeno un senatore  oppure l’Abruzzo che sempre al Senato vedrebbe ridotta la propria rappresentanza a solo 4 membri, come anche il Friuli, l’ Umbria e la Basilicata. Il Trentino, invece,  in virtù del proprio statuto speciale ne elegerebbe 6, non registrando un grande cambiamento sotto questo profilo a dispetto di chi sostiene la sensatezza della riforma. Infine, gli squilibri di rappresentanza si ripercuoterebbero anche sulla composizione dei gruppi e delle commissioni parlamentari, che non  sarebbero a ben vedere in grado di lavorare efficacemente e speditamente specie in sede redigente. Su questo punto ,però ,Di Maio ha assicurato che la riforma sarà integrata dalla modifica dei regolamenti parlamentari e, non da ultimo, dalla riforma della legge elettorale. Il tema, che verrà affrontato nelle prossime settimane, è quanto mai decisivo. Lo è, perché senza un adeguata legge elettorale, che consenta ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, questa riforma rischia di danneggiare l’assetto istituzionale del paese più di quanto possa sembrare all’apparenza. Se fra 10 anni si dovesse votare,ad esempio, una legge che abolisce il Senato (come avvenne nel 2016) per trasformarlo nella Camera delle Regioni, con conseguente ulteriore depauperamento dei poteri del Parlamento , chi potrebbe negare che questa riforma non è stato che il primo passo per smantellare la democrazia parlamentare nel nostro paese? Cosa ne resterebbe della Costituzione più bella del mondo? Siamo, dunque, davanti a un bivio: o diventiamo una nazione più forte e coesa o siamo destinati all’oblio, a tornare un espressione geografica o, peggio ancora, una colonia. Chissà se non è proprio questo l’intento di chi ha veramente scritto la riforma ovvero tagliare il parlamento e rafforzare la “casta” , che in caso di vittoria del si non potrebbe esimersi dal ringraziare e benedire chi beceramente ha votato per il suo mantenimento.

Sognando Chernobyl

Credevamo che la storia fosse finita con il trionfo statunitense al termine della Guerra Fredda, ma evidentemente ci sbagliavamo. Il conflitto ucraino, reo di aver svelato al mondo la ferocia e la tracotanza del regime di Mosca, ci ha riportato ai tempi del confronto più aspro fra potenze bipolari. Una tensione che si evidenzia oltremodo attraverso il sempre più frequente riferimento retorico al possibile impiego di armi nucleari nel contesto attuale. Solo poche settimane fa, infatti, Lavrov ha rimarcato che se la sopravvivenza della Russia sarà in pericolo una tale opzione non sarebbe da Mosca esclusa a priori. Un monito che segue la decisione di Vladimir Putin di trasferire, in seguito all’adesione della Finlandia alla Nato, testate atomiche tattiche in Bielorussia, in prossimità del confine con la Polonia. Essa rischierebbe, in quanto presidio orientale europeo di diventare la nuova Hiroshima, qualora un simile scenario dovesse avverarsi. Ma esattamente cosa è accaduto settantotto anni fa, allorché il mondo ha sperimentato la letalità di questa iniqua scoperta scientifica? Erano da poco passate le otto, quando la prima bomba atomica, chiamata in codice “Little Boy”, fu sganciata sulla città giapponese di Hiroshima, nella prefettura di Osaka. La bomba esplose a 580 metri da terra causando da subito fra le settantamila e le novantamila vittime. Solo tre giorni dopo, sulla vicina Nagasaky, esplose “Fat Man”, la seconda bomba nucleare costruita dagli Usa per piegare la resistenza nipponica. La bomba, a differenza di quella sganciata su Hiroshima, si componeva di un cuore di Plutonio 239, era lunga 3,25 metri, larga 1,5 e pesava 4 tonnellate e mezzo. Un autentico mostro di fuoco, dunque, che sfruttando l’energia sprigionata dalla fissione dei nuclei di Plutonio distrusse la vita in una manciata di minuti. La bomba funzionava secondo un meccanismo sensibilmente più sofisticato di quello di Hiroshima ma ugualmente distruttivo. Il successivo 13 Agosto, a cospetto di tale disastro, il governo giapponese si arrendeva agli Usa: finiva la Seconda guerra mondiale e iniziava l’Era Atomica. Nel sangue e nel terrore era stato generato un killer, figlio della fisica e della chimica, il quale minacciava la futura sopravvivenza del genere umano. La sua nascita ebbe una storia assai travagliata e non meno interessante: tutto ebbe inizio nel 1938, allorché il chimico tedesco Otto Hahn osservò la scissione dell’atomo a seguito di un bombardamento dei nuclei con neutroni. Gli studi di Hahn riprendevano quelli di Enrico Fermi, che già quattro anni prima aveva notato che la scissione dell’atomo provocava una reazione nucleare a catena. Nel 1942, un gruppo di scienziati emigrati dall’Europa (fra cui lo stesso Fermi) si preoccupò di tradurre in pratica il risultato di questi esperimenti per favorirne un impiego militare. Nacque il Progetto Manhattan, finanziato interamente dal governo americano con l’obiettivo di arrivare ad avere l’arma nucleare prima che tale risultato venisse raggiunto dalla Germania nazista. Il 16 Luglio 1945, sotto la supervisione del dottor Oppenheimer, capo del Progetto Manhattan, avveniva il primo test atomico nel deserto di Alamogordo, in Nuovo Messico( test Trinity). Tuttavia, la bomba che fu impiegata non contro la Germania ma verso il Giappone per via degli effetti devastanti prodotti fù oggetto di pesanti critiche e ripensamenti. Già nel 1945, infatti, nacquero gruppi e comitati che chiedevano espressamente alle potenze mondiali uscite vittoriose dal conflitto ( principalmente Usa e Urss) di adoperarsi per limitare gli arsenali nucleari. Appello questo rimasto inizialmente inascoltato per via delle vicende connesse alla guerra fredda che portarono, invece, a un incremento massiccio delle armi atomiche. Tuttavia, nonostante la fine della Guerra Fredda, il dibattito continua ad essere vivo in tutte le nazioni del mondo relativamente all’opportunità di usufruire dell’energia nucleare e delle tecnologie da essa derivatene. L’ Italia, in particolare, ha deciso di uscire dal programma nucleare mondiale a seguito dell’esito del referendum del 1987 ( svoltosi successivamente all’incidente di Chernobyl), decisione confermata poi dal referendum del 2011. Le motivazioni addotte da quanti si dichiarano contrari all’impiego dell’energia nucleare sono molteplici e meritevoli di nota: in primo luogo il territorio Italiano, essendo ad elevato rischio sismico non consente di produrre in sicurezza; in secondo luogo la difficoltà di smaltire le scorie aggraverebbe un settore come quello del riciclaggio dei rifiuti già in condizione critica per lo smaltimento di quelli solidi e urbani; infine, l’alto costo per la manutenzione degli impianti e la possibilità che questi e i suoi derivati possano essere cedute a potenze o industrie straniere, favorendone quindi la proliferazione, rendono decisamente poco vantaggioso un ritorno del nostro Paese al nucleare. Credo, in conclusione, che dobbiamo tutti quanti riflettere con serietà e coscienza riguardo al futuro nostro e del pianeta che abitiamo, proprio alla luce di quello che è avvenuto nell’ultimo secolo. Come disse Primo Levi ciò che è accaduto può accadere ancora e se il male è suscettibile di tornare, pur in forme diverse, allora preoccupiamoci tutti di rendere migliore il mondo che abitiamo, evitando di inseguire le chimere di chi ancora sogna Chernobyl. Ricordiamoci che la vita è il bene più prezioso che abbiamo e che solo un mondo di pace può evitarci di scomparire in un gigantesco fuoco d’artificio causato dalla follia e dalla cupidigia umana.

Ritratto d’Agosto

Come ogni anno ad Agosto, complice la pausa estiva, la politica rispolvera i propri “cavalli di battaglia” in vista del ritorno a Settembre, che mai come quest’anno sembra denso di incognite. Incertezze che fanno riaffiorare le tradizionali divisioni fra i partiti e moltiplicare gli interrogativi riguardo alle prospettive dell’ immediato futuro. la crisi sanitaria , infatti, lungi dall’essersi risolta, rischia di avere un impatto deflagrante sulla tenuta del paese se non affrontata con la giusta determinazione, qualità quest’ultima che sembra mancare all’attuale classe dirigente. Il premier Conte, proprio in questi giorni, ha annunciato il varo del decreto Agosto con l’obiettivo di ricompattare una maggioranza che pare sfilacciarsi a causa delle solite diatribe interne al centro-sinistra. In particolare, a divenire terreno di scontro negli ultimi giorni è stata la richiesta di approvare una nuova legge elettorale subito dopo l’estate: da un lato c’è  chi vorrebbe una legge elettorale di tipo proporzionale come  il Partito Democratico e il M5S e dall’altro chi si dimostra più propenso a un sistema maggioritario come l’ex premier Matteo Renzi. In verità , la questione , per quanto importante possa sembrare, è più simile a un pretesto per indurre qualcheduno a scoprire le proprie carte ,approfittando dell’ affievolimento del dibattito tipico del periodo feriale. Questo qualcuno sembra essere proprio Matteo Renzi, che dalla nicchia di ambiguità ritagliatasi all’interno dell’emiciclo cerca di riacquisire quel peso specifico perso per via delle sue non infrequenti giravolte. Da qui il sospetto che si stia lavorando a un nuovo governo ,allargato a Forza Italia , guidato probabilmente da Mario Draghi ( e non più da Giuseppe Conte) e con l’apporto di quei grillini “responsabili”, i quali non hanno alcun interesse a tornare alle elezioni nella certezza di perdere il seggio. Ipotesi questa meno peregrina di quanto possa apparire a una prima impressione : prova ne è che anche qualcuno nel Movimento di Beppe Grillo inizia a sentire puzza di bruciato. Basta ,difatti, scorrere le dichiarazioni rilasciate in questi giorni da alcuni parlamentari del Movimento per rendersi conto che al suo interno si sta creando una netta demarcazione fra quanti si attestano su una linea più ” movimentista”, vicina alle posizioni di Alessandro Di Battista e chi mantiene un afflato “governista” come Luigi Di Maio e l’area che a lui fa riferimento. Per capire, dunque, se vi sarà ribaltone a Settembre bisognerà attendere gli esiti delle votazioni regionali e del referendum sul taglio dei parlamentari, fortemente voluto dal M5S e che permetterà di inquadrare in modo più chiaro il futuro della legislatura. I sondaggi pubblicati a riguardo registrano un vantaggio dell’opposizione di centro-destra, ricompattatasi dopo le frizioni fra Salvini e Berlusconi delle scorse settimane innanzi alla necessità di intervenire sull’l’immigrazione clandestina e la riforma della giustizia. Quest’ultima , ritenuta ormai riforma improcrastinabile dalla coalizione a seguito dello scandalo Palamara e dell’autorizzazione  a procedere ,concessa Giovedì scorso dal Senato con il beneplacito di tutta la maggioranza , contro Matteo Salvini per il caso della nave “Open Arms”. Per completare il quadro non ci resta che citare l’ex ministro Calenda, che nel suo beato oziare fra questo e quel salotto televisivo non ha perso l’occasione per andare sulla spaggia di Melendugno, in Puglia, per dimostrare che il TAP ,tanto inviso ai grillini, è in realtà un infrastruttura utile al paese, che non reca a suo dire alcun danno al paesaggio e all’ambiente. La politica si è pertanto ripresa la scena dopo mesi di abdicazione coatta in favore di virologi e scienziati. Ciò non può che rallegrarci se non fosse per il fatto che, dopo mesi di crescita stabile, il Coronavirus torna a mietere vittime, contribuendo all’ opera di abbattimento di un popolo disilluso come quello italiano. Tuttavia, è  da segnalare al riguardo che il ministro Speranza, nella sua informativa dell’altro ieri alla Camera ,ha tenuto a precisare come la crescita dei contagi sia lieve e la situazione sotto controllo. Sarà vero? Lo scopriremo solo vivendo.                

Un new deal per l’Europa

La settimana scorsa ,a Bruxelles, è stato raggiunto, dopo estenuanti trattative , l’accordo sul Recovery Fund, il super piano d’ investimento da 750 miliardi di euro che l’Europa metterà a disposizione, a partire dal secondo semestre dell’anno prossimo, dei paesi rimasti colpiti dall’emergenza Covid 19. L’accordo, di cui l’ Italia beneficerà per la cifra record di 209 miliardi, segna certamente un punto di svolta sotto il profilo dei rapporti di forza all’interno dell’Unione. Unione Europea che sembrava nei giorni “caldi” della trattiva prossima a imboccare un pericoloso vicolo cieco a causa dei diktat posti da alcuni paesi del nord Europa. Questi, in nome di una generica quanto artificiosa frugalità, hanno tentato di giocare a rialzo, adducendo come giustificazione l’inveterato pretesto secondo cui l’Italia sarebbe un paese di “spreconi”, perennemente sovra indebitato e incapace di fare le riforme che l’Europa chiede da sempre. Riforme certo, ma quali sarebbero? perché se è vero, come è vero, che le nostre classi dirigenti negli ultimi lustri non hanno brillato per parsimonia, è anche vero che vi è stato un atteggiamento poco propositivo da parte dell’UE verso il nostro paese. Ciò è accaduto, principalmente, per via del costante sforamento da parte dell’Italia del rapporto deficit/PIL. Tuttavia, proprio quest’ultimo, come evidenziato in un importante saggio del 2010 da Joseph Stiglitz  e Jean Paul Fitoussi, sarebbe un indice errato per misurare il benessere delle nostre economie e di conseguenza la qualità delle nostre vite. Qualità della vita , che come ha giustamente sottolineato Amartya Sen nel medesimo saggio,non può prescindere da una maggiore attenzione verso l’ambiente che ci circonda, rendendosi auspicabile l’opportunità di coniugare crescita e rispetto dell’ecosistema. Del resto dovrebbe essere chiaro a tutti che se una macroeconomia si ritrova avvinta in una spirale recessiva, drogata dal dogma della crescita, il modo più sbagliato per tirarla fuori dal baratro è quello di ricorrere all’austerity. Illuminante, a tal proposito, dovrebbe essere la lezione di John Maynard Keynes e dei suoi seguaci, che da decenni sostengono la necessità di un più vigoroso intervento dello Stato come regolatore dell’economia, in antitesi a quanti ancora oggi obiettano il contrario. Secondo Keynes ,infatti, in periodi di stagnazione dell’economia senza un forte stimolo da parte dello Stato per fare ripartire consumi e investimenti uscire dalla crisi è pressoché impossibile. Dunque è doveroso un cambio di passo, mettere da parte i vecchi schemi ideologici ed evitare che la recessione che si aprirà dopo la fine di questa emergenza ponga la parola fine al progetto europeo a causa del ripetersi degli errori del passato. Per fare ciò è pertanto necessario avviare un nuovo corso, un “New Deal” , che anziché idolatrare il mercato si preoccupi primariamente delle persone e specialmente di coloro che sono più bisognosi di aiuto; che abbia un occhio di riguardo per l’ambiente in cui l’uomo si trova a vivere e ad operare, tematica quest’ultima non più eludibile alla luce dei gravi cambiamenti climatici che stanno sconvolgendo il nostro eco sistema. Solo così  l’Europa potrà rivendicare quel ruolo di patria comune della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza che geneticamente le appartiene di diritto, ma che purtroppo ad oggi fatica ad affermarsi.

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