Giorgio III d’Inghilterra, apprendendo della Dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane, disse ironicamente che il 4 Luglio 1776 sarebbe stato ricordato come il giorno in cui non era accaduto niente di importante per il mondo. Lo stesso si potrebbe dire per ciò che è accaduto da noi in Italia nelle ultime ore. Ancora una volta, dopo il precedente di Napolitano, il Parlamento si è trovato costretto ad adottare per il Quirinale una soluzione di ripiego, derogando alla prassi costituzionale che non contempla la rielezione del Capo dello Stato. Come nel 2013, si è preferito infatti convergere sul nome di Sergio Mattarella per nascondere la crisi strutturale dei partiti, gli unici veri sconfitti in questa elezione per la presidenza della Repubblica. Una crisi che evidenzia la debolezza delle istituzioni democratiche e di cui la crescente sclerotizzazione della classe dirigente è indice indefettibile. Certamente il metodo di proporre nomi da sacrificare in aula non ha pagato, così come non ha pagato la sordità di quelle forze politiche che hanno scelto di non decidere, celandosi dietro veti e obiezioni. In tal senso, coloro che in queste ore plaudono alla rielezione di Mattarella sono i principali sconfitti di questa campagna per il Quirinale. Matteo Salvini ha, in merito, dichiarato di avere la coscienza a posto e di avere fatto tutto il possibile per scongiurare lo stallo parlamentare. In vero, Salvini, che in queste ore è finito sul banco degli accusati, è il principale responsabile di questa disfatta. Lo è, perché per la prima volta il centrodestra aveva avuto la possibilità di eleggere un suo esponente alla più alta carica dello Stato e si è disperso proponendo nomi irricevibili. Carente è stato anche il metodo impiegato dal leader della Lega per stimolare la condivisione riguardo a un nome comune. Esso, invece che condurre alla sintesi, ha al contrario sortito l’effetto opposto di deviare la discussione sul binario morto del “muro contro muro”. Non a caso in molti, dentro e fuori la Lega, accusano Salvini di avere vanificato l’unità della coalizione, dimostrandosi non all’altezza della situazione. Ugualmente sconfitto in questa tornata è stato il Partito Democratico. Il segretario Letta, infatti, respingendo ogni proposta degli avversari, si è trovato costretto alla fine a sposare la linea del M5S, che fin dall’inizio di questa avventura si era speso per una riconferma di Mattarella. Per uscire da questo vicolo cieco, Letta avrebbe potuto proporre il nome di Mario Draghi. Tuttavia, a causa del fuoco incrociato delle correnti, si è incartato, uccidendo la candidatura sul nascere. Ciononostante, il premier ha avuto un ruolo non secondario nella contesa. La sua mediazione, iniziata dopo il confronto con Salvini a Palazzo Chigi, ha permesso di sbloccare la situazione, rafforzando il suo ruolo di risorsa indispensabile per la Repubblica. Un fatto singolare da cui traspare, però, la sempre maggiore irrilevanza verso cui stanno scivolando i partiti politici. Paradossalmente, questa è stata la prima campagna per il Quirinale che ha visto fiorire un gran numero di candidature tecniche( Belloni, Massolo, Cassese) e che è stata risolta da un tecnico. In realtà, il protagonismo degli “alti profili” inizia a divenire preoccupante e si pone come indice della deriva autocratica verso cui le democrazie occidentali si stanno avviando. Il timore è che attribuendo eccessiva importanza a una singola persona, pur dotata di straordinarie competenze, si possa arrivare a ritenere dannose e inutili le istituzioni. Non a caso, dopo questa magra figura, si è tornato a parlare di elezione diretta del Capo dello Stato. Un’opzione che, almeno per quello che riguarda il nostro paese, non è preferibile per due motivi. In primis, perché comporterebbe una modifica dell’ordinamento assai rilevante. In secundis, perché attraverso l’introduzione del Presidenzialismo si realizzerebbero i sogni più torbidi di quanti negli ultimi quarant’anni hanno tentato in tutti i modi di sbarazzarsi della nostra Costituzione. E questo è un rischio che non possiamo assolutamente permetterci. articolo di Gianmarco Pucci