Dopo mesi di avvertimenti, accuse, annunci e smentite, la tanto attesa crisi di governo si è finalmente manifestata in tutta la sua opacità. Il fatto non sorprende se si considera che già da molte settimane erano in essere i prodromi della tempesta perfetta abbattutasi sull’esecutivo. Ciò che lascia sbigottiti è il modo e la tempistica con cui Matteo Renzi ha deciso di trascinare il paese verso una crisi al buio, ordinando ai suoi ministri di abbandonare l’esecutivo. Renzi ha accusato la maggioranza di aver posto le premesse per la fuoriuscita di Italia Viva dal governo, adducendo a pretesto il rifiuto dei grillini di avvalersi del MES sanitario e quello di Conte di cedere la delega sui servizi segreti a una persona diversa dal Presidente del Consiglio dei Ministri. In verità, come evidenziato anche da molti osservatori e analisti politici, la realtà è sensibilmente diversa e il ragionamento di Renzi sembrerebbe rispondere più a un calcolo personale che a una reale divergenza sui contenuti dell’azione di governo. Il ragionamento, però, mai come in questo caso rischia di rivelarsi non solo errato, ma anche di favorire altri pronti ad approfittare della situazione a loro favore. Se il momento non fosse così drammatico, con gli italiani alle prese con la terza ondata del Coronavirus, verrebbe quasi da sorridere innanzi al delirio di onnipotenza di un piccolo leader passato in 10 anni da rottamatore a rottamato della politica e che pensa di sopravvivere rispolverando tattiche vagamente macchiavelliche. Certo “tirare a campare è meglio che tirare le cuoia” diceva Giulio Andreotti, ma è anche vero che il suicidio è un peccato mortale e quello di Matteo Renzi e dei suoi accoliti è un suicidio di quelli destinati a fare la storia. Una fine ingloriosa, consumatasi nel segno del tradimento e delle menzogne, ma che chiude innegabilmente un’epoca e sulle cui ceneri, come l’Araba Fenice, si prepara a nascere un nuovo fenomeno politico: quello dei “costruttori”. Il nome, a differenza di quello precedente dei “rottamatori”, sembrerebbe essere più promettente se non fosse che ci si trova innanzi all’ennesimo caso di trasformismo che da secoli anima le cronache parlamentari del bel paese. Nel caso in esame, sempre per citare Macchiavelli, il fine che giustifica i mezzi è quello di garantire la tranquilla e ordinata prosecuzione della legislatura e consentire in tal modo a deputati e senatori di salvare vitalizio e pensione. E In virtù di questa nobile causa molti si preparano a cambiare posizione e a venire in soccorso di Conte, il quale non sembrerebbe in queste ore avere alcuna intenzione di dimettersi né di formalizzare in alcun modo la crisi. In tal senso il comportamento del premier è stato incomprensibile quasi quanto quello di chi ha voluto a tutti i costi rompere l’accordo di governo. Incomprensibile, perché per prassi istituzionale il governo dovrebbe rassegnare le dimissioni in caso di dissoluzione della maggioranza che lo sostiene o quanto meno informare tempestivamente le Camere e non affidarsi a giochi di palazzo. Giuseppe Conte, invece, sembra aver deciso di seguire quest’ultima strada, confidando nella magica materializazzione di una nuova maggioranza in aula che gli permetta di rimanere a Palazzo Chigi per altri due anni. Una scelta questa costituzionalmente legittima, ma discutibile sul piano del merito e per la quale Conte potrebbe pagare pegno nel prossimo futuro. Infatti, a prescindere da ciò che accadrà Lunedì e Martedì, il governo Conte ter sarà un governo debole, logorato, appeso alla volontà di un drappello di parlamentari intenzionati a non perdere il seggio e i privilegi ad esso connessi. Uno spettacolo a dir poco indecente, che segna il tramonto nel nostro paese della democrazia parlamentare, non essendo certamente i voltagabbana sinonimo di virtù e senso delle istituzioni. Finanche Clemente Mastella, inizialmente tirato in ballo e ritenuto il regista di questa operazione di palazzo, si è tirato fuori dal progetto politico in atto dopo la polemica che lo ha visto coinvolto con Carlo Calenda. Dissociazione che rende bene l’idea del caos che aleggia nelle istituzioni e che vede ridiventare determinanti piccoli partiti e vecchi leader, i quali cercano di intestarsi il successo di un’ operazione politica dagli esiti tutt’altro che scontati.
Cronaca di un’insurrezione
Il 6 Gennaio 2021 verrà a lungo ricordato come uno dei giorni più infausti per la storia della democrazia moderna, una parentesi buia per gli Stati Uniti e per tutto il mondo occidentale. Nel giorno dedicato dai cristiani alla festa dell’Epifania, la follia si è impadronita di un’intera nazione sprofondandola nell’abisso della violenza e della barbarie. Mai era capitato di vedere un parlamento assalito con tanta brutalità da una folla inferocita e soprattutto mai ci si sarebbe aspettati che a venire violato sarebbe stato il tempio della democrazia a stelle e strisce. Per un giorno la nazione guida dell’Occidente si è trasformata, con grande gioia dei suoi avversari, in una “repubblica delle banane” sudamericana, dove tutto può essere messo in discussione a dispetto di quanto prescritto dalle leggi. Per la prima volta in oltre duecento anni di attività il Congresso degli Stati Uniti, riunitosi per certificare ufficialmente la vittoria di Joe Biden alle elezioni dello scorso 3 Novembre, si è ritrovato a fare i conti con la furia cieca di un popolo che non riconosce più la sacralità del suo perimetro. In verità il fuoco covava sotto la cenere già da tempo, pronto a divampare alla prima occasione propizia. In questo caso l’occasione è stata offerta dal conteggio finale dei voti dei grandi elettori da parte delle Camere, una fase puramente formale che ha visto la definitiva proclamazione di Biden come presidente degli Stati Uniti dopo mesi di aspre polemiche. Tali contestazioni sono, infatti, state al centro del dibattito politico americano degli ultimi due mesi, non avendo il presidente uscente Donald Trump voluto riconoscere la vittoria dell’avversario. Da settimane Trump parla di frodi, di elezioni rubate ed esercita pressioni indebite per sovvertire quanto affermatosi nelle urne. Alla fine la sua gente ( definita “un meraviglioso popolo di patrioti”) lo ha ascoltato ed esaudito, insorgendo contro quel parlamento a lui sempre più inviso. Per ore, al grido di “fermate il furto” decine di suoi sostenitori hanno vagato armati per i corridoi del Congresso, devastando locali , uffici e ingaggiando scontri con le forze di sicurezza poste a presidio del Campidoglio. La gravità della situazione ha chiaramente costretto gli agenti del servizio segreto ad evacuare il palazzo e a interrompere la seduta parlamentare, ripresa solo a tarda notte, dopo cioè la messa in sicurezza dell’area da parte della Guardia Nazionale. Drammatico è stato il bilancio delle vittime al termine dei tumulti: 4 morti, 13 feriti, oltre 60 arresti e un’ infinità di polemiche sull’inefficienza delle misure di sicurezza poste a difesa del Congresso. Ora dopo la tempesta è tornata la quiete, ma tanti sono gli interrogativi e i dubbi che aleggiano intorno a questa triste vicenda. Joe Biden, che giurerà come presidente il prossimo 20 Gennaio, ha accusato Trump di essere il responsabile morale e politico dell’assalto al parlamento degli Usa. Nel suo ultimo discorso ha spiegato al suo avversario che il presidente non è un monarca assoluto, che il Congresso non è una Camera dei signori, che la giustizia non è al servizio del potere esecutivo. Biden ha poi parlato della fragilità in cui versa la democrazia e della necessità di ricostruirla nei prossimi quattro anni, garantendo il ripristino della legalità e l’osservanza della Costituzione. Un appello che è stato accolto favorevolmente anche da tutti gli altri ex presidenti, a partire da George W Bush, il quale subito dopo gli scontri aveva condannato l’atteggiamento insensato di Trump e del suo esercito di estremisti. Proprio le prossime mosse del Tycoon newyorkese sono quelle che suscitano il maggiore interesse da qui al 20 Gennaio. Subito dopo la proclamazione di Biden, non smentendo la sua teoria dei brogli, Trump ha promesso che la transizione da qui al 20 Gennaio sarà ordinata e senza pericoli. Una parziale marcia indietro che, in virtù dell’imprevedibilità del soggetto, è stata accolta tiepidamente da molti anche nel suo stesso partito. Non è infatti una sorpresa che da ieri a Washington si sta ragionando su una possibile rimozione forzata del presidente attraverso l’applicazione del 25esmo emendamento qualora Trump dovesse tornare sui suoi passi. Dunque, come si può facilmente dedurre, la strada da qui ai prossimi 12 giorni è lastricata di incognite, di incertezze e di insidie. Il timore che ciò che è avvenuto il 6 Gennaio possa ripetersi non fa dormire sonni tranquilli a più di una persona. A essere in gioco è la sopravvivenza della democrazia americana e probabilmente non solo quella..