Gli echi delle prime battaglie sui campi della Virginia non si erano ancora placati, quando i delegati delle tredici colonie americane giunsero a Filadelfia per firmare un documento di portata storica. Dopo la battaglia di Bunker hill, infatti, divenne evidente che le aspirazioni dei patrioti statunitensi di emanciparsi dalla Madrepatria inglese, fondando una nazione nuova, libera e indipendente, fosse non solo possibile, ma anche moralmente realizzabile. Da qui, la sottoscrizione della Dichiarazione d’Indipendenza, ratificata il 4 luglio 1776 dai Padri Fondatori nel corso del Secondo Congresso Continentale. La Dichiarazione fu redatta da un’apposita commissione di cinque membri e riprendeva, a grandi linee, le istanze contenute nella Risoluzione di Lee del 1774. Tuttavia, il documento si arricchiva di puntuali richiami ai diritti inviolabili dell’uomo. In primis quello di eguaglianza, che rende tutti gli uomini artefici del proprio destino e liberi davanti alla legge. Fondamentale, in tal senso, fu l’apporto in commissione di Thomas Jefferson, futuro presidente degli Stati Uniti, che scrisse personalmente questa prima parte della Dichiarazione. Non di meno, il contributo dato da Benjamin Franklin e John Adams alla stesura. Nel rivendicare il diritto dei cittadini a ribellarsi verso gli abusi del potere statuale, costoro dichiaravano la necessità di dare vita a un ordinamento diverso da quello imposto dalla Corona britannica. Ne derivò un documento che sintetizza efficacemente, facendoli convivere insieme, il razionalismo illuminista, il radicalismo democratico e l’etica puritana. Questi valori sono tuttora parte integrante della cultura statunitense e hanno costituito il nucleo ideale da cui è scaturita la Guerra d’Indipendenza americana. Invero, i primi segni di insofferenza verso il dominio inglese si registrarono ben dieci anni prima del Congresso di Filadelfia. Successivamente alla Guerra dei Sette anni, la Gran Bretagna si trovò a dover colmare un gravoso debito di guerra che ne aveva dissestato le finanze. Per ovviare alle perdite, il Parlamento inglese decise di introdurre nuove tasse e balzelli a danno dei sudditi. In particolare, le vessazioni si fecero più stringenti nei confronti delle colonie, che fino ad allora godevano di un regime fiscale relativamente basso. La prima importante protesta si verificò, quindi, a Boston, nel Massachusetts. Qui i ribelli si opposero all’introduzione della tassa di bollo sulla carta ( Stamp act) da parte del governo britannico. I coloni rivendicavano il loro diritto a inviare propri rappresentanti a Westminster per deliberare su tale importante aggravio fiscale ( No taxation without representation). Il governo di Giorgio III decise, pertanto, di esentare le colonie dal pagamento dell’odioso balzello, pensando di sedare così la protesta. Non rinunciò comunque a esercitare le proprie potestà sui territori nordamericani. Nel 1773, un nuovo focolaio fu rappresentato dalla decisione della Corona di concedere alla Compagnia delle Indie Orientali la vendita esclusiva del tè importato dalla Cina in America. Tale scelta, penalizzando fortemente gli intermediari statunitensi, scatenò la rivolta contro il governo britannico. A dicembre, nei pressi del porto di Boston, un gruppo di coloni, appartenenti all’organizzazione “I figli della libertà” rovesciarono in mare, travestiti da pellerossa, l’intero carico di tè ospitato nelle navi ormeggiate alla fonda. Dopo questo episodio, passato alla storia come Boston Tea Party, il governo dichiarò la chiusura del porto di Boston, fino al risarcimento integrale dei danni da parte dei coloni. Nondimeno, inviò un nuovo governatore incaricato di sopprimere l’insurrezione. Il Quebec act, infine, che precludeva ogni aspirazione espansionistica verso il Canada dei coloni, fu da sola sufficiente a innescare la miccia della guerra. Dopo gli scontri di Lexington e Concord nell’aprile del 1775, la prima vera battaglia è quella di Bunker hill, una collina nelle vicinanze di Boston. Pur partendo in svantaggio, sono gli inglesi a riportare il maggior numero di perdite durante la battaglia. A differenza dell’esercito britannico, però, le forze indipendentiste sono scarsamente disciplinate e organizzate. Pertanto, il Congresso decise di costituire un esercito stabile e permanente, a cui capo fu messo un ricco proprietario terriero della Virginia, ovvero George Washington. Washington, che sarà il primo presidente degli Usa, era consapevole dell’inferiorità tattica e numerica dei suoi uomini. Ciononostante, egli riuscì a sfruttare l’entusiasmo patriottico delle sue truppe, infliggendo dure sconfitte all’esercito di Sua Maestà. Persa Long Island, le sorti della guerra volgono finalmente favore degli americani, a partire dalla battaglia di Saratoga Springs(1777). Ma è solo con la presa di Yorktown quattro anni dopo che iniziano i negoziati di pace fra l’Inghilterra e i rappresentanti delle colonie. Fondamentale, al riguardo, è stato l’appoggio ricevuto dagli americani da parte delle altre potenze europee. In primo luogo la Francia, grande sconfitta nella Guerra dei Sette anni con l’Inghilterra, ma anche la Spagna e l’Olanda contribuirono efficacemente alla vittoria finale della causa indipendentista. Tale vittoria ha simboleggiato, citando Thomas Paine, l’affermazione definitiva dell’epoca della ragione sull’assolutismo monarchico nel Nuovo Mondo. Ha, altresì, contribuito a fondare un nuovo popolo, discepolo eletto di quegli ideali egualitari, democratici e federalisti espressi nella Costituzione degli Stati Uniti. Un popolo che, nato sfavorito, è riuscito a emanciparsi, consegnando al pianeta, con tenacia e ottimismo, un grande impero globale che sopravvive tutt’oggi.
Cronaca di un mondo in guerra
“Questo gran silenzio quasi fa rumore, mentre fuori domina la notte..” così cantava Adriano Celentano in un suo famoso album del 2007, ribattezzato propriamente “La situazione di mia sorella non è buona”. Un titolo, a giusta ragione, profetico, visto che la condizione di nostra sorella ( la Terra) non è affatto delle migliori. La guerra, infatti, è tornata a minacciare la pacifica esistenza dell’uomo sul pianeta, spazzando via le sue certezze di vivere in un mondo sicuro e governato da leggi sacre e inviolabili. A partire dal 24 febbraio 2022, abbiamo sperimentato in prima persona la fragilità di tali convinzioni e al contempo scoperto una nuova normalità. In breve, la Terza Guerra Mondiale a pezzi, tanto evocata da Papa Francesco, si è manifestata nitidamente ai nostri occhi, costringendoci a rivedere paradigmi che credevamo ormai consolidati. Come se non fosse già bastata la Pandemia, il proliferare dei conflitti nel globo sono arrivati puntualmente a destabilizzare il già precario equilibrio mondiale. Invero, unitamente alla perdurante crisi climatica e all’inesorabile avvento dell’Intelligenza artificiale, sono molteplici le minacce alla pace nei tempi bui che stiamo vivendo. In tal senso, il 2024 non poteva iniziare sotto più nefasti auspici. Dopo i tragici fatti di Gaza dello scorso 7 ottobre, un nuovo fronte bellico rischia di aprirsi nel Mar Rosso. Solo poco tempo fa, i ribelli Houthi, che dal 2015 controllano gran parte dello Yemen, hanno attaccato ripetutamente i mercantili statunitensi in transito nel Golfo di Aden. I “Partigiani di Dio” hanno rivendicato gli attentati, promettendo nuove ritorsioni contro coloro che sostengono Israele nella lotta ad Hamas. Hanno, inoltre, ribadito che risponderanno prontamente alle aggressioni di Usa e Regno Unito, rei di aver pesantemente bombardato le basi dei ribelli in questi giorni. Invero, iniziative in tal proposito sono attese anche dall’Ue. Giusto ieri si è riunito il Consiglio europeo che, sotto la direzione dell’Alto Rappresentante Borrell, ha deciso, in accordo con Francia, Germania e Italia, di varare una missione navale per difendere i traffici marittimi fra l’Asia e il Vecchio Continente. Nessun paese, d’altronde, può dirsi al sicuro dalla minaccia proveniente dalle coste yemenite. Essa descrive chiaramente il presagio peggiore dall’inizio del conflitto in Medio Oriente. Ovvero, quello di un allargamento della guerra ad altre realtà regionali percorse dal fondamentalismo islamico. Oltre agli Houthi, rivoluzionari sciiti sostenuti e finanziati dall’Iran, nuovi focolai bellici si stanno risvegliando in Siria, in Pakistan e in Libano. Hezbollah, al riguardo, si è già detta pronta a rispondere agli attacchi di Israele, che è nuovamente tornato a colpire obiettivi sensibili nel sud del Libano. Tuttavia, anche fra gli alleati, voci critiche iniziano a levarsi verso la strategia difensiva fin qui adottata da Tel Aviv. A venire stigmatizzata è, soprattutto, la volontà di Nethanyahu di proseguire nella linea dura contro Hamas, negando ogni legittimità alla causa palestinese. Il primo ministro israeliano si ostina a ignorare la soluzione dei due Stati, per inseguire una vittoria personale nello scontro. Una vittoria che lo riabiliti agli occhi di un’opinione pubblica sempre più insofferente verso la sue scelte. Sempre ieri, i familiari degli ostaggi hanno fatto irruzione alla Knesset, denunciando il silenzio del governo sulle trattative per liberare i loro congiunti. L’episodio è avvenuto in contemporanea alla presentazione di una mozione di sfiducia da parte del Labour, che potrebbe fortuitamente porre fine al governo del leader più longevo della storia dello Stato Ebraico. Ciononostante, Bibi persevera nella sua condotta di autocrate. Forte dell’appoggio dello Shas, la destra religiosa, rifiuta ogni proposta di pace, incurante degli appelli della comunità internazionale per una tregua immediata. La stessa che da tempo si richiede per il conflitto in Ucraina e che per primo ha riportato la guerra al centro del dibattito internazionale. A quasi due anni dall’inizio delle ostilità, la Guerra nel Donbass non accenna a regredire, essendosi trasformata ormai in una guerra di trincea per il controllo di una sottile linea di terra. Al momento, le forze di Kiev stanno combattendo sul fianco orientale del paese, nei pressi di Bakhmut. Negli ultimi giorni, tuttavia, i russi hanno guadagnato sensibilmente terreno. Tanto che il ministro degli esteri russo Lavrov, intervenendo all’ONU, si è detto convinto che la Russia piegherà la resistenza ucraina, non appena l’Occidente smetterà di sostenere militarmente Kiev. Le speranze del regime di Mosca riposano, a ben pensare, su una non improbabile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali di quest’anno. Il Tycoon non fa infatti mistero di voler rivedere l’impegno degli Usa nell’Alleanza Atlantica. Del resto, sul tema, ha pubblicamente elogiato Orban per il suo rifiuto di inviare nuove armi a Kiev, promettendo di fare lo stesso se tornerà alla Casa Bianca. Per Trump, la difesa della democrazia non è qualcosa in cui gli Stati Uniti possono perdere né tempo né soldi. Al contrario, ha proditoriamente affermato che farà finire la Guerra in Ucraina in un solo giorno, suscitando scetticismo e pubblica ilarità. Invero, l’isolazionismo trumpiano sembra maggiormente congeniale alle mire di Vladimir Putin in Europa. Le recenti minacce del leader russo ai Paesi baltici sono un chiaro indizio della sua intenzione di muovere guerra alla Nato per conquistare il nostro continente. Un’ipotesi che spalancherebbe le porte alla Terza Guerra Mondiale e che alcuni danno già per probabile. Il ministro della difesa tedesco Pistorius ha chiaramente detto che, entro la fine del decennio, dovremo essere pronti a difendere il nostro territorio da una possibile aggressione russa. Ciò con buona pace di un’industria bellica che non conosceva tempi così floridi dalla fine della Guerra Fredda. Solo nell’ultimo anno, la produzione e la vendita di armi è triplicata e si prevede che aumenterà ancora negli anni a venire. Il ricorso all’indebitamento per finanziare le spese di guerra favorirà la contrazione dell’economia mondiale, restringendo lo spazio d’investimento delle imprese in settori non presidiati dall’intervento dello Stato. Inoltre, renderà i paesi schiavi del debito pubblico e ciò non potrà che accrescere, da ultimo, anche le diseguaglianze sociali. Pertanto, occorre ripensare celermente il sistema su cui si fondano le relazioni internazionali. A partire da una non più rinviabile riforma delle istituzioni sovranazionali, che in questo frangente hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza nel garantire la tenuta del sistema globale. È, altresì, necessario ridare impulso al progetto di unificazione europea, dotando l’Unione di un proprio esercito. Un esercito che, in ossequio agli ideali kantiani, non sia permanente, ma stabilmente orientato a ricercare la pace fra le nazioni e disincentivare la corsa al riarmo. Occorre, infine, ripensare noi stessi. Per troppo tempo abbiamo tollerato l’odio e la violenza, convinti dell’intangibilità delle nostre libertà. La guerra nasce ogni volta che si da per scontata la pace e in questo la nostra inerzia è stata vieppiù colpevole. Pertanto, verrebbe da chiedersi, quanto siamo disposti a sacrificare di noi per sentirci ancora liberi? E, soprattutto, siamo disposti a combattere perché essa non ci venga definitivamente strappata via da qualche scaltro autocrate? di Gianmarco Pucci
Dividi et impera
Era da più di un anno che il tema dell’ordine pubblico non tornava al centro del dibattito politico. Ad ottobre del 2021, a scaldare gli animi, fu l’assalto alla sede romana della CGIL da parte dei militanti del partito neofascista di Forza Nuova. Pomo della discordia, in quel frangente, fu la protesta, da parte di esponenti del movimento No Vax, contro il Green Pass, il quale ha permesso agli squadristi di Roberto Fiore di infiltrarsi nella manifestazione, seminando caos e disordini. Oggi, invero, la situazione è latamente più esplosiva. Gli scontri avvenuti sabato a Roma, fra forze dell’ordine e anarchici, sono un innegabile sintomo di un malessere sociale diffuso che, ormai, trova nella violenza il proprio minimo comune denominatore. A dare fuoco alle polveri, risvegliando la galassia insurrezionalista, è stata la vicenda di Alfredo Cospito, esponente di spicco del movimento anarchico, il quale da mesi è in sciopero della fame presso il carcere di massima sicurezza di Opera. Cospito, che è stato condannato in via definitiva per aver gambizzato un dirigente dell’Ansaldo, avrebbe da mesi elaborato una peculiare strategia della tensione, al fine di ottenere la revoca del regime detentivo speciale del 41 bis. Tale misura gli era stata applicata in seguito alla scoperta di messaggi in codice, veicolati dal carcere attraverso riviste anarchiche, ai suoi compagni di lotta, per proseguire la guerra contro lo “Stato borghese e capitalista”. Da qui gli attentati che, negli scorsi mesi, hanno coinvolto le sedi diplomatiche italiane di Bercellona e Berlino. Attacchi che sono stati prontamente rivendicati dai sodali di Cospito, attraverso lettere minatorie inviate alle redazioni del Tirreno e del Resto del Carlino. Un modus operandi che ricorda molto quello in voga negli “Anni di Piombo” e in cui gli anarchici hanno avuto un ruolo affatto trascurabile. Fu, infatti, all’indomani della morte di uno di loro, Giuseppe Pinelli, che in Italia si intensificò l’azione terroristica dei gruppi eversivi di destra e sinistra. Per certi versi, l’opera destabilizzante degli anarchici è da sempre preludio a una possibile deriva sanguinaria dello scontro politico. Tuttavia, a causa anche del tramonto delle grandi ideologie novecentesche, oggi non è più replicabile un simile scenario. Al contrario, è molto più probabile che altri potrebbero avere interesse a celarsi dietro costoro per ricattare lo Stato. Dalle comunicazioni intercettate in carcere, gli inquirenti hanno appreso dell’esistenza di un sodalizio fra Cospito e alcuni boss mafiosi, finalizzato ad ottenere la revoca del 41 bis. Ciò, non per caso, avviene proprio all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro e del vuoto di potere creatosi in seno a Cosa Nostra. La ricerca di nuovi equilibri nella Cupola spiegherebbe, infatti, le ragioni di questa inedita recrudescenza eversiva, la quale tenderebbe, ancora una volta, a intavolare una trattativa con lo Stato, spargendo il terrore. Al riguardo, però, la risposta del governo è parsa fragile e inadeguata. Predicare “legge e ordine”, scivolando irrimediabilmente nella retorica si presta, specularmente, ad esasperare il conflitto in atto, favorendo l’affermarsi dell’imperativo “dividi et impera”. In tal senso, gli interventi degli esponenti della maggioranza sulla questione, sembrano aver riprodotto, in questi giorni, tale schema di condotta. Accusare, nel bel mezzo di un dibattito in Assemblea, come ha fatto Donzelli, l’opposizione di complicità con la mafia, rivelando pubblicamente atti d’ufficio, è stato, oltre che controproducente, gravemente lesivo del prestigio del Parlamento. Se poi, come è stato accertato, tali carte sono state fornite dal Ministero della Giustizia, nella persona del sottosegretario Del Mastro, tale modo di procedere è ancora più discutibile. Usare, a proprio uso e consumo, le Istituzioni per fare propaganda politica rischia di fornire validi motivi a chi vorrebbe sovvertire le basi dell’ordinamento democratico. Specialmente quando certe informazioni non vengono trattate con perizia e attenzione. Donzelli e Del Mastro, che per le loro esternazioni sono adesso sotto scorta, dovrebbero, infatti, sapere che le visite ai detenuti rientrano fra le prerogative dei parlamentari e che non si può convocare una giuria sulla base di accuse meramente pretestuose. Dovrebbero anche sapere che sulla concessione( o la revoca) del 41 bis decide il Ministro della Giustizia, su indicazione della Procura Nazionale Antimafia e che, pertanto, interventi a gamba tesa di questo tipo, oltre che scarsamente rispettosi dell’equilibrio fra poteri, potrebbe nel lungo periodo minare la credibilità dell’esecutivo. Nondimeno, tale comportamento rischia di pregiudicare il cammino delle riforme. In proposito, Giorgia Meloni ha detto recentemente che il 2023 sarà un anno ricco di novità. L’intento è più che lodevole, ma bisogna attenersi ai fatti. Sull’economia, il governo ha fatto poco e quel poco che si è visto , per contrastare la povertà e agganciare la ripresa, è un lascito dell’esecutivo precedente. Sul fronte della giustizia, la linea di Nordio sembra particolarmente ondivaga, oscillando fra il mantenimento della riforma Cartabia e il suo definitivo superamento. Vero banco di prova sembra, invece, essere diventata la riforma presidenziale dell’Italia. Una prospettiva caldeggiata da tutta la maggioranza, ma che potrebbe riservare, se non opportunamente vagliata, amare sorprese. In particolar modo, se dovessero ripetersi eventi come quelli della scorsa settimana, di per sé idonei a dimostrare che in Parlamento c’è gente capace solo di aprire bocca per darvi fiato. di Gianmarco Pucci
All’ombra del Sole Nero
“Meditate che questo è stato e che ciò che è accaduto può accadere di nuovo”. Sono questi alcuni dei versi più celebri della poesia “Se questo è un uomo”, scritta da Primo Levi per ricordare la terrificante esperienza vissuta dagli ebrei durante l’Olocausto. Una tragedia che Levi ha vissuto personalmente ad Auschwitz e che è diventata la parabola di un intero popolo. Con la Shoah, infatti, gli ebrei hanno visto realizzarsi per la prima volta il proprio genocidio. Un lucido sterminio a cui si è giunti poco per volta e nel silenzio generale. A dispetto di quanto si possa immaginare, l’antisemitismo non è cominciato in Germania con il Nazionalsocialismo. Esso era largamente presente in Europa da almeno cinquanta anni e costituiva uno dei principali argomenti impiegati dalla retorica nazionalista per propagandare le proprie idee. Tipico, in tal senso, è stato “l’Affare Dreyfus”, che nel 1894 vide imputato per alto tradimento Alfred Dreyfus, capitano dell’esercito francese, da parte della magistratura militare di Parigi. Il caso, che divise l’opinione pubblica d’oltralpe, contestava a Dreyfus la redazione di una lettera, comprovante rapporti di collaborazione fra l’ufficiale e la Germania nemica. L’accusa, che lo Stato Maggiore rivolgeva a Dreyfus, sembrò da subito un maldestro tentativo dell’esercito di sbarazzarsi dell’uomo, a causa delle sue origini semite. Le prove addotte nel processo erano puramente indiziarie, ma ciò non risparmiò a Dreyfus un lungo soggiorno in prigione, da cui ne uscì fortemente provato. Solo dopo vent’anni, infatti, la Cassazione francese riconobbe l’innocenza dell’ufficiale, riabilitandolo completamente. La strada, tuttavia, era aperta e il montante antisemitismo trovò presto degli argomenti ancora più convincenti per diffondere il proprio veleno. In Germania, ad esempio, una solida base culturale a tali tesi venne dalla crescente fascinazione dei tedeschi per l’esoterismo. Non era raro, nella Germania del primo dopoguerra, che accanto alla religione ufficiale convivessero riti popolari( volkisch) che si richiamavano al paganesimo della mitologia nordica. La riscoperta di questi culti fu inevitabilmente favorita dalla delusione dei tedeschi per la sconfitta nella Grande Guerra. Ciò fece la fortuna di maghi e cartomanti, che si prestavano a preconizzare l’avvento di un’era straordinaria per la Germania, sotto le insegne di un nuovo Reich. Un Impero che, sulla scia di un grande Fuhrer( condottiero), avrebbe finalmente restituito ai tedeschi l’orgoglio perduto, ovvero quello di essere la razza superiore per eccellenza. La Razza ariana, figlia di Odino, che nella Germania barbarica, all’ombra del Sole Nero, dominava su tutte le altre culture, sottomettendole e annientandole. Fu sufficiente questo per legittimare l’ideologia nazista agli occhi di un popolo insofferente e prostrato. Il resto lo hanno fatto gli eventi. Al malcontento della popolazione, seguì presto l’indignazione verso la debole risposta della Repubblica di Weimar alla recessione economica. Una recessione scaturita dai pesanti debiti di guerra, dovuti a titolo di sanzione dalla Germania alle nazioni vincitrici. In questo clima, i nazisti fomentarono l’odio verso gli ebrei, rei di aver venduto il Paese alle potenze capitalistiche e borghesi. Dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler, nelle scuole si iniziò ad insegnare ai bambini che il Fuhrer, come Gesù sulla Croce, avrebbe salvato il mondo dal cancro giudaico, cancellandoli dalla faccia della Terra. Lentamente, tutta la Germania sprofondò nell’abisso di tale follia ideologica, il cui fanatismo pervase tutti gli ambiti della società. Dalla cultura allo sport, dal diritto alla scienza, ogni cosa divenne il riflesso del delirio di un solo uomo. Un uomo, che pur acclamato dalle folle, è diventato il simbolo stesso del Male Assoluto. Egli, nato in una famiglia della media borghesia austriaca, ha visto nello sterminio degli ebrei un modo per liberarsi dei propri incubi interiori. E nel farlo non ha esitato a legare al suo destino tutto il suo popolo, trascinandolo nel baratro della guerra. Più di lui, comunque, resta colpevole l’ignavia di chi ha implicitamente accettato “la soluzione finale” praticata nei lager. Eccezion fatta per Oscar Schindler e pochi altri, nessun tedesco si è opposto a tale abominio e non vi è stata, a differenza dell’Italia e della Francia, una resistenza vera all’avanzata del Nazismo. Come riportato da Enzo Biagi, in un suo famoso reportage del 1947, i tedeschi dell’epoca, per loro stessa ammissione, erano tutti convinti del necessario genocidio degli ebrei. Tale indifferenza, oltre a farci inorridire, dovrebbe indurci a più di una riflessione. Quanto tale atteggiamento non è oggi presente, seppur in forme diverse, nella nostra società? A tal riguardo, per ciò che concerne il nostro Paese, ci vengono in soccorso i dati offerti dalla polizia postale. Secondo gli esperti, negli ultimi tre anni i crimini d’odio in Italia sono drasticamente aumentati. Strumento privilegiato, per diffondere messaggi antisemiti, resta la rete, che, grazie alla crescente espansione dei social, riesce a coinvolgere sempre più persone. Il proliferare, infine, di teorie complottiste sul Coronavirus e sui vaccini fornisce il supporto indispensabile per plagiare le menti più facilmente suggestionabili. Non è infrequente, infatti, che dal negare l’esistenza del Covid si arrivi a negare la veridicità dell’Olocausto. Questo ci riporta al monito di Primo Levi a non dimenticare, pena il ritorno ai tempi bui che furono. Al male, infatti, per replicarsi, è sufficiente l’altrui tolleranza per infettare tutta la società. Del resto, il volgere del tempo è capace di addormentare anche gli animi più brillanti. Da qui la necessità di preservare la memoria e di esercitarla sempre nel rispetto dell’altrui opinione. Una capacità che stiamo perdendo, anche a causa del venir meno degli ultimi testimoni di quell’orrore sconvolgente, che non smette di seminare odio e pregiudizi fra i popoli ancora adesso. di Gianmarco Pucci
L’Ultima Primula Rossa
Per decenni la sua figura, enigmatica e sfuggente, è stata al centro dei principali notiziari italiani. Di lui rimaneva solo una voce, impressa su un nastro registrato, e delle vecchie foto, ingrigite dal passare del tempo. Ora, invece, Matteo Messina Denaro è uscito dall’ombra e ha smesso di essere un fantasma. Le immagini del suo arresto hanno fatto il giro del mondo, consegnando alla giustizia “l’Ultima Primula Rossa” di Cosa Nostra. A tradirlo è stata la malattia, che lo ha costretto a recarsi in clinica per beneficiare di un particolare trattamento chemioterapico. Celandosi sotto il falso nome di Andrea Bonafede, i carabinieri del Ros lo hanno osservato per mesi, seguendo l’elenco delle prestazioni sanitarie da lui richieste. Un dettaglio non da poco, rivelatosi più che sufficiente a decretare la fine della sua lunga carriera criminale. Una carriera iniziata più di trent’anni fa, ai tempi delle stragi di mafia, e che è proseguita fino all’altroieri, nel più totale anonimato. Dalle prime indiscrezioni, pare che “U Siccu” non abbia mai abbandonato la sua Castelvetrano. Un fatto sul quale stanno ora indagando gli inquirenti, al fine di ricostruire quella fitta rete di relazioni che ha favorito la latitanza del padrino. A Mazara del Vallo, ultima residenza del boss, sono stati arrestati ieri il suo medico di base e il vero Andrea Bonafede, il quale ha rivelato agli investigatori di conoscere e stimare personalmente Messina Denaro fin da bambino. Rapporti umani, dunque, che il figlio di Ciccio Messina Denaro ha coltivato sapientemente in tutto questo tempo, permettendo a Cosa Nostra di evolversi e cambiare pelle. A differenza di Riina e Provenzano, “Don Matteo” ha tagliato i ponti con la vecchia mafia agreste, non disdegnando il lusso e il potere. Grazie a lui si è ulteriormente saldato quell’asse fra crimine organizzato, borghesia mafiosa ed economia grigia, costituente il cosiddetto “Terzo Livello” di tutti gli affari sporchi italiani. Non è riuscito, tuttavia, ad evitare il declino di Cosa Nostra degli ultimi anni, il cui dominio è sempre più insidiato dall’emergere di nuove e più pericolose organizzazioni. In primis la Ndrangheta, che da tempo ha tolto alla mafia siciliana il monopolio del traffico di droga. In virtù degli stretti legami che ha avuto con la massoneria, è anche ritenuto l’uomo dei misteri. Soprattutto, per i tanti segreti che custodisce e che periranno con lui. Fra tutti, quelli relativi alle stragi degli anni 90 e alla presunta trattativa con lo Stato. Non per niente, fu a lui e a Brusca che Riina commissionò alcuni dei più aberranti omicidi di quel periodo. Dalla strage di Via d’Amelio a quella di Via dei Georgofili, dalla bomba inesplosa allo Stadio Olimpico fino agli omicidi del piccolo Giuseppe Di Matteo e di Antonella Bonomo, sono tanti i delitti di cui si è reso autore o partecipe. Ciononostante, proprio Totò “U Curtu”, prima di morire, lo aveva disconosciuto. I suoi metodi troppo indulgenti verso lo Stato, unitamente alla sua riluttanza a regolare i conti con le armi, avevano ultimamente suscitato un certo disappunto fra i membri più ortodossi della cupola palermitana. Tanto da legittimare il sospetto di un possibile cambio della guardia ai vertici dell’organizzazione . Del resto, come diceva Giovanni Falcone, ella è un fenomeno tipicamente umano, con liturgie non dissimili da quelle di una qualunque altra società. Al pari, è anche gattopardianamente in perenne trasformazione. La sua esistenza è, infatti, immanente a quella della comunità nazionale e, per certi versi, ne accompagna i cambiamenti. Fortunatamente, però, qualcosa negli ultimi decenni è cambiato e si sta perdendo il concetto di mafia quale cancro endemico della società. l’organismo statuale ha sviluppato degli anticorpi sempre più forti contro questo male iniquo della nostra terra. Malgrado non possa dirsi sconfitta definitivamente con l’arresto di Matteo Messina Denaro, Cosa Nostra manifesta evidenti segni di decadenza. L’emergere del fenomeno del pentitismo, inaugurato da Tommaso Buscetta, ha permesso di comprendere meglio certe dinamiche interne all’organizzazione e di prevenire la commissione dei reati. La maggiore consapevolezza dei cittadini siciliani riguardo ai propri diritti ha, inoltre, consentito lo sviluppo di quella cultura della legalità che la mafia teme come la peste. Nondimeno, a prescindere dall’euforia del momento, da adesso inizia per lo Stato una nuova battaglia. Con l’arresto di Messina Denaro si è certamente chiusa l’epoca della mafia stragista, ma non di quella degli affari. Un sistema che, inquinando l’economia sana, produce più danni del piombo delle pistole, al quale preferisce sempre più sorrisi pacati e vellutate strette di mano. di Gianmarco Pucci
Cento anni di pandemie
Pensavamo di essere fuori dall’incubo, ma a quanto pare ci sbagliavamo. Dalla Cina giungono nuove e allarmanti notizie su una ripresa dei contagi da Covid 19. Al momento il governo di Pechino non ha fornito dati certi su questa inedita recrudescenza del virus, ma è evidente che essa è figlia della scellerata politica di riapertura del paese voluta dal regime. Dopo mesi di tolleranza zero, il governo cinese ha infatti deciso di seguire la strada opposta, eliminando ogni ostacolo alla libera circolazione di uomini e merci. Circolazione che, inevitabilmente, favorisce la riproduzione del virus e che ha indotto il nostro governo ad intervenire. Per prevenire il pericolo di nuove varianti, il Ministero della Sanità ha emesso un’ordinanza che impone tamponi obbligatori e quarantene per chi viene dall’Asia orientale. Una soluzione resasi necessaria in seguito ai casi di infezione registrati nei giorni scorsi agli aeroporti di Milano e Roma. Dalla Cina, ha detto il ministro Schillaci, è arrivato chiaro il messaggio di come non si gestisce una pandemia. Il regime non ha fatto prevenzione come doveva e ha omesso di somministrare i vaccini alle categorie più fragili della popolazione. Al momento, comunque, sembra scongiurato il pericolo di nuove restrizioni, non essendo omicron in grado di arrestare l’efficacia dei vaccini occidentali. Malgrado la riluttanza di Pechino nel condividere le proprie informazioni epidemiologiche, non pare dunque plausibile il replicarsi della situazione di tre anni fa. Nel 2019, infatti, il virus giunse in Europa, inesorabile e silenzioso, cogliendoci sostanzialmente impreparati. Specialmente per la pressoché totale ignoranza riguardo alle sue origini. Ad oggi sappiamo che il coronavirus non è altro che una mutazione, più letale e contagiosa, del virus della Sars, che nel 2003 provocò la morte di 811 persone e l’infezione di oltre 8000. Esso, isolato per la prima volta da un ricercatore italiano, Carlo Urbani, proviene dal mondo animale e si è adattato rapidamente all’uomo attraverso il consumo di alcune carni. Inizialmente si pensò che la trasmissione avvenisse dai gatti selvatici, di cui gli asiatici si nutrono anche per fini propiziatori e religiosi. In seguito si è scoperto che a veicolare il virus è il pipistrello, largamente venduto anche nel mercato di Wuhan da dove è partita l’attuale pandemia. A questa tesi, affermata dalla scienza ufficiale, se ne contrappone un’altra, sostenuta dai cosiddetti “negazionisti del Covid”. Per costoro il virus non esiste, o per meglio dire, esso è un deterrente impiegato dai governi mondiali per lucrare sui vaccini commercializzati dalle case farmaceutiche. Essi, come è noto, alimentando surreali tesi complottiste, giocano sulla credulità popolare per propagandare idee destituite da ogni fondamento scientifico. Invero, a differenza del passato, oggi sappiamo molte più cose sul virus e siamo quindi in grado di tutelarci meglio da esso. Abbiamo, infatti, superato lo shock iniziale di non vivere in una società ideale, immune da questo genere di emergenze. Un’esperienza che le generazioni precedenti alla nostra conoscevano bene e che accettavano senza abbandonarsi all’isteria collettiva. Nella storia europea, accanto alle guerre, non sono infatti mai mancate le pandemie. Tipica, a tal riguardo, è stata l’epidemia di Influenza Spagnola che ha sconvolto il mondo giusto un secolo fa. A dispetto del nome, il primo caso di questa nefasta influenza polmonare fu registrato in Kansas, presso Fort Riley, dove si addestravano le truppe che andavano a combattere nella Grande Guerra. Le trincee sarebbero state il principale focolaio dell’epidemia, a causa del sovraffollamento, delle precarie condizioni igieniche e della malnutrizione presente fra i soldati. Questi, tornando a casa nel 1918, avrebbero poi infettato la popolazione civile, provocando in due anni la morte di oltre 50 milioni di persone. La Spagnola, i cui tragici effetti furono non dissimili da quelli della Peste Nera del 1348, fu favorita anche dagli insoliti cambiamenti climatici intervenuti fra il 1915 e il 1918. Le piogge e il grande freddo di quel periodo avrebbero, casualmente, consentito al virus di riprodursi e circolare più rapidamente. La sindrome è poi scomparsa da sola, mutando in un genotipo del virus influenzale. Restarono, però, le conseguenze della malattia. Non furono infrequenti i casi di persone che, pur sopravvivendo alla Spagnola, accusarono problemi neurologici e depressivi per il resto della loro vita. Da allora, per almeno un secolo, grazie anche al progredire della scienza medica e alla scoperta dei vaccini da parte del biologo scozzese Alexander Fleming, il mondo non si trovò più a vivere esperienze così traumatiche. Pandemie minori, comunque, hanno continuato ad attraversare il cammino dell’uomo. Come l’Asiatica, che provocò qualche milione di morti fra il 1954 e il 1968, mutando poi nell’Influenza di Hong Kong, debellata completamente nel 1970. L’eziopatogenesi, anche in questo caso, è comune a tutte le altre epidemie dell’ultimo secolo. A cominciare dall’alimentazione, che in alcune parti del globo è particolarmente povera e denutriente. Specularmente, nei paesi ricchi, il cibo si spreca e si seguono diete sregolate. L’abuso di carboidrati e proteine animali è alla base di numerosi disturbi alimentari( fra tutti l’obesità) forieri di patologie ben più gravi e insidiose. Non a caso, una ricerca di poco tempo fa, ha dimostrato come il numero dei tumori sia in aumento, anche a causa del crescente consumo di carni bovine nei fast food e nelle steakhouse. C’è, infine, il problema degli allevamenti intensivi e dell’impiego in agricoltura di mangimi e fertilizzanti chimici. Attualmente non vi sono dati inoppugnabili sui rischi per la salute umana derivanti dal consumo dei cibi in tal modo trattati. Tuttavia, è ormai pacifico che lo sfruttamento rapace del suolo e delle sue risorse ha un impatto deflagrante sul benessere dell’ecosistema. Un ecosistema sempre più minacciato dall’opera predatoria dell’uomo, che per inseguire il demone del profitto si dimentica finanche dell’esistenza della morte. I recenti decessi di uomini illustri( sportivi, politici, artisti), accanto a quelli di persone comuni, ci ricorda quanto le nostre esistenze siano caduche innanzi a una morte ineluttabilmente democratica. Ci spinge, inoltre, a ripudiare quel dogma che fino a ieri, confidando nei successi della scienza, ci aveva illusi di poter vivere in eterno, incuranti dei mali che affliggono l’uomo fin dalla notte dei tempi. Di Gianmarco Pucci
Veleni in Vaticano
Pare ormai evidente che la stagione dei veleni non si è ancora spenta aldilà del Tevere. Le ultime scottanti rivelazioni sugli affari del cardinale Becciu, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi, tornano, infatti, ad agitare i palazzi pontifici, seminando zizzania e discordia. Ciò, peraltro, proprio in coincidenza dell’inizio del nuovo anno liturgico, che per i cristiani rappresenta da sempre un momento di fiducia e speranza. Invece, le parole del porporato, intercettate dalla Guardia di Finanza di Oristano, nell’ambito dell’inchiesta che lo vede indagato per peculato e abuso d’ufficio, piovono come un fulmine a cielo sereno su tutta la comunità dei fedeli. Nelle sue conversazioni con amici e parenti, il cardinale non lesina critiche al Papa, accusandolo di volere finanche la sua morte. Tale astio sarebbe scaturito dalla decisione del Santo Padre di sospendere Becciu da tutti gli incarichi per il suo coinvolgimento nell’omonima inchiesta vaticana. Secondo gli inquirenti, Becciu avrebbe approfittato della sua posizione per acquistare, a spese della Santa Sede, un immobile di pregio nel centro di Londra, avvalendosi della mediazione di alcuni faccendieri. Fra tutti, di Cecilia Marogna, già ribattezzata dalla stampa “La Dama del Cardinale”, la quale è sotto inchiesta dal 2021 per aver impiegato fondi vaticani per scopi estranei alla cura delle anime. La donna è accusata, infatti, di aver speso indebitamente denaro della Segreteria di Stato per pagarsi hotel e viaggi di lusso. Nondimeno, ella avrebbe beneficiato di tali fondi per portare a termine operazioni di “intelligence” in favore del Vaticano. In particolare, nell’inchiesta si fa riferimento al pagamento di un riscatto per la liberazione di una suora in Colombia. Una vicenda in cui sarebbero coinvolti non solo ecclesiasti e professionisti, ma anche il fratello e la nipote del cardinale Becciu. Per costoro, e per il sistema di potere che starebbe dietro al prelato, si sta, in queste ore, profilando un rinvio a giudizio per associazione a delinquere. Dal Vaticano non giungono commenti ai fatti, ma è evidente che essa deturpa gravemente l’immagine della Chiesa, più di quanto non avesse già fatto “l’affare Vatileaks”. Per certi versi, si potrebbe quasi affermare che la vicenda odierna continua quell’opera diabolica, prefigurando uno scandalo talmente ampio da non vedersene la fine. Anche allora( era il 2015) tutto cominciò con la diffusione, da parte dei “corvi” monsignor Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, di notizie riservate sulle spese della Santa Sede. Chaouqui, soprannominata “la Papessa” per il suo rapporto di fiducia con Balda, fu poi quella che materialmente informò i giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, inaugurando lo scandalo e la conseguente inchiesta. La storia, come è noto, è stata narrata in due libri, scritti dai colleghi in ossequio alla vicenda che li ha visti direttamente protagonisti. Da lì in poi niente è cambiato, malgrado l’impegno di Papa Francesco a rinnovare profondamente la Chiesa. Al contrario, da quando Bergoglio è stato chiamato a succedere al soglio di Pietro, le lotte intestine nella Curia si sono intensificate. Una parte di essa non ha mai condiviso il suo impegno riformatore, rivolto a costruire una Chiesa vicina agli ultimi e ai sofferenti. Una Chiesa povera, ben presente nella riflessione teologica di Francesco e testimoniata anche da importanti gesti del Pontefice. Sotto il suo Magistero, infatti, si è assistito a una riduzione dei finanziamenti allo Ior, la potente banca vaticana, e a una diminuzione dei conti correnti presso di lei accreditati. Un evento che ha creato attriti con il collegio episcopale, ma che ha al contempo contribuito a migliorare la percezione pubblica della Chiesa Cattolica. Particolarmente decisa è stata, inoltre, la presa di posizione del Sommo Pontefice contro gli abusi sessuali sui minori. In Australia, nel 2021, per la prima volta la Chiesa ha preso le distanze dai presbiteri accusati di pedofilia, chiedendo perdono alle vittime e accordando loro il risarcimento dei danni. Si comprende, dunque, perché Papa Francesco non sia amato negli ambienti conservatori della sua comunità ecclesiale e perché si torni sovente a parlare di scisma. L’idea di Chiesa Universale da lui professata è infatti antitetica al particolarismo di quei cardinali che predicano il perdono dei peccati, ma che poi si macchiano delle peggiori colpe. Essi, avvelenando la Chiesa con la loro corruzione, si pongono fuori da essa e in contrasto con quella vivente. Ovvero quella degli uomini, fatti a immagine e somiglianza di Dio, e non di Becciu e famiglia. di Gianmarco Pucci
Il Kosovo e la crisi nei Balcani
Non abbiamo fatto in tempo ad abituarci al conflitto in Ucraina, che un altro fronte di guerra rischia di aprirsi ai confini orientali dell’Europa. A più di vent’anni dalla fine della Guerra in Kosovo, la regione è tornata ad essere teatro di scontri etnici fra albanesi e serbi. Come è noto, le due culture ( musulmana la prima e ortodossa la seconda) non si sono mai veramente amate e non hanno mai del tutto sopito le proprie aspirazioni nazionaliste. Tanto da legittimare l’intervento della Nato nel 1999, attraverso la missione KFOR, per porre fine allo sterminio dei kosovari da parte delle milizie serbo-bosniache di Milosevic e ripristinare la pace nel territorio. Tale episodio ha poi portato, dieci anni dopo, alla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo, mai peraltro riconosciuta dalla Serbia e dalla Russia. Da qui, il proliferare di lotte intestine fra le etnie che convivono nel paese. In particolare, da parte dei serbi, stanziati prevalentemente nel nord del Kosovo, che da mesi si oppongono alle ultime decisioni del governo di Pristina. A partire dalla volontà di quest’ultimo di sostituire le targhe delle auto serbe con quelle kosovare. Una questione che, già questa estate, aveva sollevato polemiche e suscitato preoccupazioni. La Comunità Europea a giugno era, non a caso, intervenuta per convincere Pristina a rinviare tale deliberazione al primo settembre, confidando in una proficua ripresa dei negoziati fra le parti. Invece, la situazione è improvvisamente precipitata. La Serbia accusa il governo di Albin Kurti di aver tradito gli accordi di Bruxelles del 2012 e di voler provocare un incidente internazionale, alimentando l’odio fra i due popoli. Pristina, dal canto suo, imputa a Belgrado di voler annettere il nord del paese, creando un casus belli simile a quello costruito ad hoc da Putin in Donbass. Secondo Kurti, solo così si spiegano le proteste che in queste ore stanno attraversando la nazione. Una protesta iniziata con le simboliche dimissioni delle guardie di frontiera, che hanno abbandonato le caserme e restituito le proprie divise. Un esempio che stanno seguendo anche altri funzionari statali, giudici e cancellieri in primis. La gravità della situazione, che rischia nuovamente di trasformare i Balcani in una polveriera, viene, allo stato attuale, monitorata da Bruxelles, che non esclude una soluzione diplomatica della questione. Josep Borrell, Alto Rappresentante della Politica Estera dell’Unione, ha assicurato che l’UE sta lavorando a un accordo che permetta di disinnescare questa pericolosa escalation aldilà dell’Adriatico. Gli fanno eco le parole del Cancelliere tedesco Scholz, che d’intesa con Parigi, proporrà al prossimo consiglio europeo un piano di pacificazione per i Balcani. Sulla stessa linea sono anche gli Usa e la Nato, che auspicano una soluzione mediata della crisi in corso. Stoltenberg, tuttavia, ha avvertito la Serbia che la Nato è pronta ad intervenire in qualsiasi momento a sostegno di Pristina, qualora dovesse essere violato il suo spazio territoriale. A tal riguardo, ha già inviato uomini e mezzi al confine settentrionale del paese. Tuttavia, a tali avvertimenti, Il presidente serbo Vucic non ha replicato. Al contrario, incontrando gli ambasciatori di Russia e Cina, ha espresso preoccupazione per la crisi che si è aperta e ha manifestato la sua disponibilità per una soluzione ordinata ed equa della stessa. Restano, però, i dubbi. Vucic è da sempre molto vicino al Cremlino e il pericolo che il conflitto in Ucraina possa allargarsi, coinvolgendo Stati satelliti del vecchio Impero Sovietico, resta alto. A dispetto dei buoni propositi, Vucic non ha mai smentito le sue ambizioni in Kosovo. Pur restando neutrale verso le proteste svoltesi in settimana a Mitrovica, a pochi km dal confine serbo, il presidente non si è dissociato dai fatti e non ha detto nulla per tacitare gli animi. Al contrario, a quei 10.000 cittadini serbi che sono scesi in piazza, sventolando la sua bandiera , ha detto di comprendere il loro dissenso e questo non può farci dormire sonni tranquilli. In primo luogo, per le conseguenze negative che un eventuale esodo di profughi potrebbe avere sulle coste italiane. Se dovesse prodursi una situazione critica anche nel Canale di Otranto, dopo quella che quotidianamente si vive nel Mediterraneo, la vicenda potrebbe avere risvolti imprevedibili dal punto di vista della gestione dell’immigrazione e degli scambi commerciali sulla rotta balcanica. In secondo luogo, qualora dovesse crearsi un nuovo focolaio bellico nel Vecchio Continente, nessuno potrebbe più escludere un conflitto su larga scala, probabilmente nucleare. Un’ipotesi che tutti stanno cercando di scongiurare e che porterebbe i Balcani a divenire l’ultimo tassello prima del grande salto nel buio della Terza Guerra Mondiale. di Gianmarco Pucci
Halloween, un punto di vista critico
Come ogni anno, da quando è stata importata dall’America , la notte che precede la Festività di Ognissanti torna ad essere, anche nel nostro Paese, quella in cui si celebrano streghe e folletti. Figure ben presenti nel folklore popolare, ma che sono estranee alle nostre tradizioni cristiane e ai suoi valori fondanti. Al contrario, essendo la festa la diretta derivazione del Samhain celtico, essa tende a contaminare la cultura cristiana con quella pagana, aprendo un varco verso il mondo dell’occulto. Un rischio su cui la Chiesa si è espressa più volte, denunciando il pericolo della diffusione, specie fra i più giovani, di riti e pratiche magiche. Il primo, in tal senso, a intravedere questa minaccia fu Padre Amorth, noto esorcista da poco scomparso. Amorth, in consonanza con la dottrina della fede, non si espresse contro la festa quale momento ludico e di aggregazione fra i più piccoli, ma riguardo al messaggio che Halloween è suscettibile di veicolare. Un messaggio implicitamente anticristiano che, dissacrando il Culto dei Santi e quello dei Morti, tende inevitabilmente a esaltare il male e a negare la vittoria di Cristo sulla morte. Un pericolo, quest’ultimo, evidenziato anche da Papa Francesco, il quale nell’Angelus di domenica ha invitato i fedeli a recarsi ai cimiteri per rendere omaggio ai defunti e a non far vestire i propri figli da creature infernali. Inoltre, il Santo Padre ha disposto per la notte del 31 ottobre una veglia speciale presso la chiesa di Sant’Anna in Vaticano, proprio per allontanare Satana dalla Festa di Ognissanti. Un male, ha sottolineato il Cardinale Martini, immanente ad Halloween, pure per il carattere infinitamente relativistico e consumista della festa. Come, purtroppo, avviene anche per il Natale, sembra che le festività religiose siano più un’occasione per assediare i centri commerciali, moderne cattedrali del materialismo agnostico, che un momento di riflessione e di condivisione. Questo, inevitabilmente, favorisce la proliferazione di riti pagani, seppur sotto mentite spoglie. Il Samhain, infatti, era la tradizionale festa dedicata ai morti nelle antiche popolazioni anglofone. Essa veniva celebrata il 31 ottobre, coincidente con il capodanno celtico. Un periodo ritenuto straordinariamente fecondo per consentire, attraverso veri riti magici, il contatto fra i vivi e gli spiriti dei defunti. Era, inoltre, anche un momento per sovvertire le regole della tradizione, ospitando banchetti e compiendo atti di divinazione( come la cristallomanzia, l’arte di predire il futuro). Frequenti erano, poi, le pratiche orgiastiche, eseguite al fine di propiziare la fertilità dei raccolti. Secondo, infine, fonti rinascimentali, la festa era un modo per adorare il demonio, nella veste di un dio della morte identificato in Baal, demone mediorientale che nell’universo demonologico celtico assurge proprio a questo ruolo. Non vi sarebbero, invece, prove che durante la festa si perpretassero sacrifici umani o messe nere. Tuttavia, il rinvio che Halloween fa a simboli e oggetti magici, la rendono particolarmente insidiosa. Specialmente per le personalità più fragili che, familiarizzando con tali emblemi, potrebbero facilmente cadere vittima delle sette sataniche. Difatti, accanto a una magia, per così dire, innocua( magia bianca) ve ne è un’altra, la cosiddetta magia nera, che, nell’adorare Satana, induce i suoi affiliati a commettere reati, talvolta balzati agli onori delle cronache per la loro efferatezza( come l’assassinio di suor Mainetti a Chiavenna o il più noto caso delle “Bestie di Satana” a Varese). Ciò, per dirla con le parole di Don Aldo Bonaiuto, responsabile del servizio Antisette della Comunità Giovanni XXIII, descrive un mondo articolato, complesso e in continua evoluzione. Si calcola, infatti, che a causa del senso di smarrimento e solitudine indotto dalla Pandemia, l’attività di reclutamento da parte delle sette abbia conosciuto una crescita notevole( +40%). Tale fenomeno è direttamente proporzionale alla crisi della famiglia tradizionale, sempre più minacciata dall’avanzata di nuovi tipi di unione. In definitiva, possiamo dire che certamente non tutte le sette sono sataniche, ma sono tutte ugualmente diaboliche. E, per osmosi, lo sono tutte quelle ricorrenze che, come Halloween, inscenando un macabro carnevale dell’esoterismo, si prestano tacitamente a suggestionare le menti e a diffondere ridicole superstizioni. di Gianmarco Pucci
Tu quoque Britain
Ha destato molto scalpore, qui da noi in Italia, la prima pagina dell’Economist, popolare giornale economico britannico, contenente una vignetta giudicata da molti offensiva per il nostro Paese. Nello specifico, l’immagine riprende Liz Truss, premier inglese uscente, vestita da pretoriano romano, intenta a combattere con uno scudo a forma di pizza e un forcone di spaghetti. Il tutto sormontato da una scritta campale, in cui si paragona l’instabilità politica del Regno Unito a quella che tradizionalmente contraddistingue il Belpaese( la frase è, infatti, “Welcome to Britaly”). C’è da dire che non è la prima volta che l’Italia finisce nel mirino della stampa inglese. Solo quattro anni fa, un’altra vignetta satirica dell’Economist, aveva commentato negativamente la crescita economica dell’Italia, ritraendo un gelato tricolore pronto ad esplodere. Tuttavia, questa volta, la “perfida Albione” potrebbe aver fatto male i suoi conti. Il governo Truss, durato appena 44 giorni, rischia di preannunciare un periodo, più o meno lungo, di forti tensioni politiche e sociali. A determinare le dimissioni di Truss sarebbe stata, infatti, un’azzardata manovra fiscale che, tagliando le tasse per i più ricchi, avrebbe provocato una tempesta finanziaria e il crollo della sterlina in borsa. Da qui, le dimissioni prima del ministro delle Finanze, Kwasi Kwarteng, e poi della stessa premier. Ad oggi, Liz Truss risulta, comunque, detenere due record. Quello di essere stata la terza donna, dopo Margaret Tatcher e Theresa May, a rivestire il ruolo di Primo ministro britannico e quello di essere stato il premier meno longevo della storia del Regno Unito. Talmente breve, da battere il primato di George Canning, morto nel 1827, a quattro mesi dall’arrivo a Downing Street. Invero, Liz Truss verrà ricordata anche per essere stata l’ultimo premier del regno di Elisabetta II e il primo di quello di Carlo III. Un fatto epocale, che ha lasciato sgomenti non solo i sudditi inglesi, ma pure il resto del globo. Beatles a parte, la Regina Elisabetta era la più popolare icona vivente di una Gran Bretagna che faticherà molto a ritrovare la propria identità. Con lei, si potrebbe quasi dire, si è definitivamente chiuso il Novecento. Quello stesso Novecento che Hobsbawm definì il secolo breve e feroce, ma in cui non è mancato il coraggio e la speranza nel futuro. Uno spirito che Elisabetta ha incarnato alla perfezione, reggendo fra l’altro ai tanti scandali che hanno investito in questi anni la Famiglia reale. In primis, i divorzi dei suoi figli e la morte di Lady Diana nel 1997. Un episodio che sembrò mettere in crisi la Monarchia britannica e che solo l’autorevolezza di Elisabetta riuscì a evitare. Infine, per venire agli anni più recenti, lo scandalo degli abusi sessuali, costata al Principe Andrea l’allontanamento dalla Corte e la rinuncia a tutti i titoli militari e reali. Stessa sorte toccata al secondogenito di Carlo, Henry, il cui matrimonio con l’attrice americana, Meghan Markle, ha ricordato a molti la sciagurata unione fra lo zio di Elisabetta, Edoardo VIII, con l’attrice statunitense, Wallis Simpson, e che gli costò, a causa delle simpatie naziste di entrambi, la Corona. In quel frangente, fu provvidenziale l’intervento di Winston Churchill che, intuendo l’imminente guerra con la Germania, si prodigò in favore dell’abdicazione al fratello del Re, Giorgio VI. Un acume e una lungimiranza che nè Truss né Boris Johnson hanno dimostrato di avere. Quest’ultimo, poi, che si assume erede di Churchill, è stato un’autentica delusione. Dopo aver cavalcato la Brexit ne ha, infatti, subito le conseguenze. Secondo l’Ocse, a causa della Brexit, il Regno Unito crescerà meno del previsto nel prossimo triennio. Una crisi economica che la congiuntura energetica rischia di aggravare enormemente e che sta inducendo ad alcuni ripensamenti. I laburisti, in particolare, starebbero pensando di rinegoziare l’accordo con l’UE e di tornare nella Comunità Europea, qualora dovessero vincere le prossime elezioni generali. Tale disappunto, verso un divorzio non dimostratosi così allettante, si sarebbe, tuttavia, fatto strada anche nei conservatori. Festini a parte, dietro le dimissioni di luglio di Johnson ci sarebbe stata la volontà dei parlamentari conservatori di sbarazzarsi di un premier ingombrante e inadeguato. Un ripudio che i conservatori hanno nuovamente manifestato, chiudendo alle aspirazioni di Johnson, novello Cincinnato, di poter tornare a Downing Street dopo l’abbandono della sua delfina. Al suo posto, invece, è arrivato Rishi Sunak. Sunak, quarantadue anni ed ex ministro del Tesoro, aveva già sfidato Truss come premier, perdendo nel voto fra gli iscritti al partito. A cagione dei grandi cambiamenti che la Gran Bretagna sta attraversando, egli è il primo premier di origine indiana della storia inglese. È anche il più ricco, contando su un patrimonio personale maggiore di quello del Re d’Inghilterra. Un binomio, dunque, che oltre a mettere in discussione i canoni tradizionali della politica d’oltremanica, sembrano quasi realizzare una profezia. Quella di una riscossa delle ex colonie e del definitivo tramonto di quell’Imperialismo britannico che qualcuno, illusoriamente, crede ancora di poter riesumare. di Gianmarco Pucci